mercoledì 27 ottobre 2010

Non perdersi in un bicchier d'acqua

Qualche giorno fa è apparsa su molti quotidiani nazionali una pagina intera sulle virtù dell'acqua in bottiglia. Se non l'avete vista, la potete vedere qui. Mineracqua ha deciso di promuovere questa campagna per fare una verifica comparativa diretta tra le proprietà dell'acqua in bottiglia e quella di rubinetto. Alcuni blog, come Ecoalfabeta (ecco qui un post sul tema), hanno notato non solo l'effetto "rappresaglia" dopo una campagna della Coop in favore dell'acqua di rubinetto (eccola qui) ma anche le numerose inesattezze dei contenuti della pagina stessa. Dove sta la ragione? Lascio a voi il giudizio, ma dandovi la possibilità di fare una comparazione tra i contenuti della pagina pubblicitaria e una fonte informativa altrettanto autorevole, realizzata da una multiutility italiana:
  • L'acqua imbottigliata "sgorga pura da sorgenti protette e incontaminate". Basta leggersi le etichette per vedere che, molto spesso, non è vero. Ma non è quello il problema. Anche l'acqua di rubinetto non proviene da montagne innevate e pure, ma da "acqua di falda, a una profondità cha varia tra 60 e 300 metri". Basta che sia controllata e noi ce la beviamo volentieri. La multiutility dice che effettua ogni anno oltre 10.000 esami di laboratorio e analizza oltre 200.000 parametri. 
  • L'acqua minerale deve rispettare "precisi parametri di legge". Per legge, appunto, l'acqua di rubinetto ha limiti molto più rigidi delle acque minerali per quanto riguarda i valori di alcune sostanze (nota 1 del post di Ecoalfabeta). Un esempio? Ecco una bella e chiara tabella.
  • L'acqua minerale "raggiunge casa vostra con la purezza e il gusto originari".  Il trasporto viene fatto spesso per numerosi chilometri, con TIR, con condizioni ambientali non prevedibili. Difficile dare queste garanzie assolute, soprattutto ricordando il discorso della purezza (già contestato nel punto precedente).
  • L'acqua minerale è "senza paragoni", quella del rubinetto "è solo bevibile". Di oggettivo c'è poco in queste considerazioni. 
Lascio a voi ogni considerazione. Io invece di pongo altre domande:
  • Perché la pagina pubblicitaria non cita il fatto che un litro di acqua di rubinetto costa circa 1.000 volte in meno di un litro di acqua in bottiglia?
  • Perché la pagina pubblicitaria non cita il fatto che per trasportare l'acqua in bottiglia ogni anno in Italia girano 300.000 TIR (e che ognuno con un litro di gasolio fa 5 chilometri, lasciandovi fare il conto delle emissioni in atmosfera)?
  • Perché la pagina pubblicitaria non dice che per produrre una bottiglia da 1 litro e mezzo occorrono quasi 90 grammi di petrolio, oltre 2 litri d'acqua e si emettono 160 grammi di CO2?
Ne avrei altre ma mi fermo qui. Perché la pagina pubblicitaria chiude con questa frase: "Da un'informazione trasparente nascono scelte libere". Condivido. Per questo leggiamo le pubblicità ma ci informiamo anche con molte altre fonti, in primis blog e siti Internet. Uno è questoCi sono tutte le informazioni sulle acque in bottiglia (e loro non le vendono, le collezionano). Una cosa è sicura: non ci perdiamo in un bicchier d'acqua.

martedì 26 ottobre 2010

Vedere il mondo (del lavoro)

Ieri sera guardavo Porta a Porta, si parlava di lavoro, di precarietà, di sindacati. Giro su La7 e più o meno venivano trattate le stesse tematiche. La mia reazione? Sentivo parlare di un altro Paese da persone che non lo conoscono neppure, se non per sentito dire. Non posso dire di essere sorpreso ma ho il brutto vizio di non essere immune da queste prese in giro. Questione di carattere. A questo punto, in questo mio spazio, voglio spiegare come lo vedo io il mondo del lavoro in Italia, con due proposte. Che succederà poi? Quasi sicuramente nulla. Ma intanto ci provo perché io questo Paese, al 48esimo posto a livello di competitività (sotto alla Lituania, tanto per capirsi), lo amo ancora, anche se non sono corrisposto.

Il mondo del lavoro in Italia, per me ma non solo, è questo:
  • Il 79% delle aziende italiane ha lavoratori non in regola, ossia in nero (84% in Emilia Romagna). La fonte è qui.
  • Gli ispettori INPS hanno recuperato un miliardo e 502 milioni di euro nel 2009. Ne assumono di più? No, si bloccano le assunzioni e, anzi, diminuiscono. Non proprio un'idea geniale se vuoi incentivare la lotta all'evasione fiscale. La fonte è la stessa citata prima.
  • 5 milioni di italiani esercitano lavoro autonomo ma 300-400.000 di queste partite IVA sono finte, ossia nascondono un lavoro dipendente (fonte Il Giornale delle partite IVA, Ottobre 2010).
  • Oltre 400.000 contratti di lavoro a progetto in Italia (fonte Il Sole 24 Ore), che sono rinnovabili per un numero indefinito di volte, hanno parametri molto vaghi e non assicurano assolutamente livelli pensionistici da paese civile.
  • Oltre 300.000 stagisti in Italia (la fonte è qui). Secondo la legislazione italiana, lo stage non è in alcun modo considerabile come un rapporto di lavoro subordinato e quindi non è obbligatoria la retribuzione degli stagisti. Non proprio un esempio di equità da paese civile. 
A mio parere, questa è una situazione non gestibile per il sistema aziendale italiano. Cosa avremo tra 10 anni? Un esercito di precari non formati e inefficienti, la costante necessità di aumentare gli ammortizzatori sociali (che ammortizzano ma non spingono nulla), nessun valore aggiunto per le aziende (che non hanno risorse produttive, competenti e motivate). Diciamolo chiaro: la Legge Biagi ha fallito. Sono passati sei anni e i risultati non ci sono, inutile attaccarsi a dati di comodo "in politichese" o far raffronti superficiali con altri Paesi. Per questo, propongo due cose, derivate dalla realtà che vedo con i miei occhi:
  1. Rivedere la legge Biagi, diminuendo le tipologie contrattuali e riportando in auge il contratto di formazione lavoro, oltre a prevedere minimi retributivi per gli stage: il CFL era una forma contratto equo che dava vantaggi sia alle imprese (che formavano le proprie risorse in modo serio e con una prospettiva) che agli impiegati (lavoro stabile per 12 o 24 mesi, non rinnovabile, o si viene assunti o si cerca un altro lavoro). Possiamo ripartire dal 2004 (io sono stato uno degli ultimi in Italia ad avere questo tipo di contratto). In più, che uno lavori gratis (con uno stage) è un'assurdità economica, oltre che logica.
  2. Collaborare con le associazioni di categoria: il sindacato è ormai una struttura obsoleta, che potrebbe andare bene solo per grandi aziende. In Italia, il 95% delle imprese ha meno di 9 impiegati. Il Ministero del lavoro deve poter dialogare con un numero definito di associazioni per definire protocolli equi per ogni macrocategoria di lavoratori. Non solo quelli "tutelati" da Ordini professionali. Siamo nel 2010, accidenti.
I miei sono solo due sassetti dello stagno. Ma li mando via mail al Ministro Sacconi (oltre a offrigli la mia consulenza per aggiornare i contenuti del sito del suo Ministero). E già mi preparo alle nuove puntate di Porta a Porta, deprimenti anche senza plastici. Basta un sindacalista che parla di un mondo industriale morto e sepolto da più di 20 anni.

lunedì 25 ottobre 2010

Ecoballe utili ed eco-balle inutili

Ho partecipato all'inaugurazione di un nuovo impianto per la realizzazione di combustibile da rifiuto a Marghera, vicino a Venezia. Senza voler entrare nel merito, dato che del Waste Marketing ne ho già parlato qualche post fa, mentre ascoltavo le presentazioni dei relatori ho fatto una veloce analogia col fenomeno del greenwashing. Il tema è attuale: l'ecologia è un tema "caldo", che fa breccia nella sensibilità delle persone e allora i miei prodotti devono essere "green". Non lo sono? Prendi una specifica caratteristica, ne esalti le doti di sostenibilità ambientale e trasformi il tuo prodotto dandogli una bella verniciata di verde. Caso raro? Recenti ricerche dicono che non è affatto così, anzi è un fenomeno in crescita.

Bene, torniamo al mio evento. Avendo letto articoli sul greenwashing, stavo riflettendo su come comunicare efficacemente le caratteristiche sostenibili di un'attività, di un prodotto, di un'iniziativa. Assistendo alle varie relazioni, mi sono venute in mente le regole citate nell'articolo e ho fatto un veloce confronto:
  • Distrarre l'attenzione comunicando la propria generosità nel finanziare progetti, anche di dubbia rilevanza: durante l'inaugurazione, è stato detto in modo chiaro e ufficiale che "il sistema che abbiamo cominciato a costruire 15 anni fa vale circa cento milioni di euro". Informazioni chiare e dirette che spesso le aziende italiane non comunicano per un milione di motivi, di cui nessuno valido.
  • Negare le informazioni a supporto di quanto dichiarato (basarsi solo sull'annuncio): 250.000 tonnellate all'anno di rifiuti urbani in ingresso, di cui il 55-60% viene trasformato in combustibile da rifiuto da bruciare in una centrale termoelettrica, controllando le emissioni (dati messi online sul sito). Processo semplice e comprensibile, tecnicismi ridotti al minimo. 
  • Certificare da soli la propria sostenibilità (senza parti terze coinvolte): un rappresentante del Politecnico di Milano ha presentato una ricerca sul ciclo di vita del CDR. Un risultato su tutti: una tonnellata di combustibile da rifiuto permette un risparmio di 860 chilogrammi di CO2 fossile. Dato di ente terzo che spiega più di mille parole.
  • Utilizzare visual ("immaginate che ...") per comunicare un interesse che non c'è: all'evento la comunicazione era focalizzata solo sul "prodotto", ossia il combustibile da rifiuto. Niente evocazioni, niente campagne, niente parole in più. Semplicemente, "una visione di futuro che ha preso corpo" (citazione di Walter Ganapini, esperto del settore esterno alla società). Ora, non domani.
  • Non avere una visione sistemica della sostenibilità (farlo perché è la moda del momento): è stato ribadito che il progetto è iniziato oltre 15 anni fa e che ha visto numerosi Ministri coinvolti. "Senza questo impianto oggi saremmo in emergenza rifiuti come altre regioni" è stato detto. Impossibile dare torto a questa affermazione.
  • Sottolineare una singola caratteristica "green", quella che fa più comodo: durante il workshop che ha preceduto il taglio del nastro, si è spiegato nel dettaglio come funziona l'impianto, perché è stato scelto il modello di "cogenerazione all'italiana" (niente accezioni negative, solo un interesse prioritario alla produzione di elettricità invece di calore) invece di quello "alla danese" (priorità al calore e meno all'elettricità), quali risparmi di emissioni sono stati ottenuti (in termini di cifre su polveri totali, ossidi di zolfo, anidride carbonica fossile, etc.). Dati chiari, autorevolezza ampia.
Un'inaugurazione semplice e coerente, informazioni chiare e dirette per i cittadini senza utilizzare una parola in più ma senza neanche una parola in meno. Di questo abbiamo bisogno. Non esistono solo prodotti "green" e lo sappiamo bene, li compriamo da decenni. Non esistono impianti che non fanno emissioni ma ce ne sono che le monitorano e le rendono minime. Dare una pennellata di verde a qualsiasi cosa non serve a niente. Dicendo balle, anche se sono ecoballe, non si va verso un futuro migliore. Anzi, si mette a rischio il proprio presente.

P.S. A conferma della buona organizzazione dell'evento, ringrazio Francesca Faraon di Idecom per avermi inviato le slide che le avevo richiesto, al volo, mentre mi consegnava caschetto e pettorine per la visita all'impianto.

martedì 19 ottobre 2010

Internet e stampa, il delitto imperfetto

"Noi pensavamo che Internet stesse uccidendo la stampa. Ma non è così". Questo è il titolo di un articolo pubblicato sul sito del quotidiano britannico Guardian. Che smentisce il delitto annunciato, citando dati dettagliati e difficilmente confutabili. Non c'è una correlazione diretta: alcuni giornali crescono sia in termini di diffusione che di accessi al loro sito, altri crollano in entrambi. Un esempio britannico: il quotidiano Daily Mail vende 300.000 copie cartacee in più rispetto al 1995 (quando il sito Internet non esisteva), in compenso il portale cresce anch'esso. Se la rete quindi non è la principale indiziata dell'omicidio della stampa, almeno per il momento, a chi dobbiamo guardare? Il discorso è un po' più complesso ed è necessario approfondirlo.

Qualche tempo fa avevo scritto un post sul fatto che stiamo vivendo dentro al futuro dell'editoria. I dati che stiamo analizzando non sono univoci, ci portano a riflessioni diverse su come Internet e stampa possono e potranno convivere. Non si può pensare che un lettore, un giorno qualunque, abbandoni il quotidiano cartaceo e, in automatico, inizi a consultare un sito Internet. C'è bisogno di analisi più dettagliate sulle vendite, sugli accessi e sulle motivazioni reali di determinati cambiamenti. E ogni Paese ha la sua specifica storia. Ad esempio, il Daily Mail citato prima vende nel 2010 più di 2.100.000 copie, il Corriere della sera (il più diffuso quotidiano italiano) 500.000 copie. Ossia meno di un quarto. Sempre prendendo in esame il quotidiano di via Solferino, nel 2007 aveva una diffusione più alta del 2001, nonostante gli utenti di Internet in Italia fossero praticamente raddoppiati in 6 anni (da 8,5 a 17 milioni). I conti non tornano, il Guardian non si sbaglia.

Gli esperimenti per trovare un nuovo modo di fare giornalismo continuano. In Italia è nato Lettera 43 (quotidiano creato e sviluppato esclusivamente online), il Sole 24 Ore sta lanciando la sua applicazione di Nòva per iPad ("la Vita Nòva", appunto) e altri stanno provando a testare il campo, come Blitz Quotidiano (che per titoloni e notizie quasi invasive ricorda vagamente il famoso Huffington Post, che a me non piace per nulla). Come ho già detto, il futuro non lo conosce nessuno (anche se le mie personalissime killer application saranno semplicità di lettura, personalizzazione e contenuti gratuiti) ma, a quanto pare, non abbiamo un'idea chiara neanche del presente. L'articolo del Guardian chiude con "... and more research, please". Perché un quotidiano italiano non approfondisce questo tema? Avrebbe almeno una copia venduta in più. 

(foto credits: 
http://www.gliitaliani.it)

giovedì 14 ottobre 2010

C'è chi dice no*

Facendo la "rassegna quotidiana" dei miei blog di riferimento, leggo un bellissimo post pubblicato da Giovanna Cosenza (Disambiguando). Una giovane insegnante ha avuto il coraggio di dire no a una proposta di lavoro in un liceo scientifico. Perché la "filosofia" della scuola prevede di dare i 12 punti all'insegnante ma di "non pagare nessuno". Ora, per chi legge potrebbe sembrare ovvio e facile dire di no alla proposta di fare 18 ore settimanali di insegnamento in 5 classi in modo del tutto gratuito. Siamo davvero sicuri che sia così semplice?

Questo tema mi sta a cuore perché ultimamente stavo solo cercando di tirare fuori le parole giuste per trattarlo. E questo post segue idealmente quello che ho scritto qualche giorno fa sui "costi dei contenuti". Quanti ragazzi giovani lavorano gratis come stagisti, magari facendosi anche numerosi chilometri in macchina, con le aziende che "li pagano in formazione" (motivazione grottesca e meschina)? Quante agenzie e consulenti fanno alle aziende prezzi stracciati, dei veri "sottocosto" da supermercato (senza averne i vantaggi), perché "c'è la crisi, non si può dire di no"? E, tornando al post iniziale, tutti gli altri insegnanti di quella scuola che lavorano gratis e che, finora, pare siano stati zitti? Parliamo della realtà. Nel settore dove io lavoro, nella consulenza, non ci sono onorari minimi, perché si tende a favorire la libera concorrenza. Però il dibattuto è acceso e una recente sentenza della Corte di Cassazione sui minimi tariffari degli avvocati ne è la prova: sono stati riconosciuti come sussistenti tutti i requisiti che fondano la legittimità delle dette tariffe minime in relazione al diritto dell'Unione europea. Anche Il Sole 24 Ore ha trattato l'argomento, sostenendo che la Cassazione vuole evitare una concorrenza che si traduca nell'offerta di prestazioni "al ribasso", tali da poter determinare un peggioramento della qualità del servizio.

Torniamo a noi, che non siamo la Cassazione. Cosa possiamo fare? Prima di tutto, evitare di diventare "carne da cannone" sul mercato. Ogni categoria dovrebbe realizzare un patto professionale all'interno delle proprie organizzazioni di riferimento (che si possono anche auto-creare) per determinare dei limiti minimi di prestazione. La mia idea è quella di un limite minimo di riferimento in base agli anni di esperienza nel settore, condiviso e trasparente: per chi ha 5 o più anni di esperienza, un minimo di 80-100 Euro all'ora di prestazione professionale. Difficile? Impossibile? Può darsi. Intanto, proverò a sentire l'ACTA. L'unica cosa a non fare è generare una guerra tra poveri. Perché le aziende hanno bisogno di persone serie e competenti a cui rivolgersi per avere quel valore aggiunto che non possono ottenere da personale interno. E potrebbero, così, ottenere maggiori garanzie per avere un rapporto tra costi e benefici ancora più favorevole. Per iniziare, seguiamo l'esempio del post iniziale: c'è chi dice no. Brava Giulia*.  

* Omaggio a un grande poeta italiano, Vasco Rossi.

mercoledì 13 ottobre 2010

Il costo dei contenuti

"Mi piacerebbe lavorare con lei. Ma cosa fa esattamente? E quanto mi potrebbe costare?" Si potrebbe riassumere con questa frase l'intero lavoro di un consulente in comunicazione. L'obiettivo è infatti quello di far capire a enti o aziende interessati a comunicare, in modi diversi e con strumenti eterogenei, quale valore aggiunto puoi dare e quanto "pesi" in termini di investimento. Non è facile ma è il lavoro non lo è quasi mai. In questi giorni sto incontrando molti responsabili aziendali che, indirettamente, mi fanno sempre queste domande. Rispondere per metafore è utile e opportuno ma non sempre si ha il tempo necessario per fare un discorso strutturato e facile da capire. Allora mi sono inventato un luogo "ibrido", un po' sito, un po' blog, un po' curriculum online, preposto a rispondere a queste domande: www.riccardopolesel.com.

Ovviamente, un nuovo sito non è una notizia (come il mio animo di giornalista mi spiega, paziente). Soprattutto, se è fatto in modo semplice e diretto come il mio. Però sentivo l'esigenza di dare una risposta convincente a quelle domande, con parole comprensibile a tutti (più o meno). Particolarmente importante è stata la riflessione sulla questione del costo. Per chiunque lavori come libero professionista e offra servizi di consulenza, quantificare in Euro sonanti la propria creatività, le proprie idee, il proprio stile di scrittura non è facile. Anzi, è uno dei passaggi più complessi da affrontare. Tutto può essere troppo o troppo poco. Io ho scelto di basarmi sulle mie ore di lavoro, conoscendo i costi che avevo in agenzia. Ho fatto una verifica veloce con colleghi nella mia stessa situazione e il responso è stato confortante. Sono sul mercato e sono competitivo.

Spesso, tuttavia, le aziende ci percepiscono come "cari". Perché? Un'offerta, scritta nera su bianco su un foglio, è una cosa che ha sempre un impatto (si parla di denaro). Ma spesso è una reazione più emotiva che obiettiva. Un esempio? Supponiamo che proponga un'attività per due mesi di lavoro al costo di 3.000 Euro, tutto compreso. Accidenti, si direbbe. Invece per l'azienda un professionista con 10 anni di esperienza come me costa, in due mesi, come un dipendente che prende 900 Euro netti al mese (1.200 Euro netti al mese per un collaboratore a progetto). Alla luce di ciò, ho voluto ribadirlo anche sul mio sito. Perché se un'azienda mi fa le fatidiche domande, ora ho una risposta pronta. Anzi, un link.  

venerdì 8 ottobre 2010

Il mondo delle PMI - La Intranet

"Sono un'azienda e vorrei sviluppare un nuovo progetto di comunicazione interna. Mi potrebbe aiutare?". Volendo avere un'idea complessiva dello "stato dell'arte", vi rispondo che si possono consultare parecchi siti, italiani e stranieri. Tante buone idee, tanti suggerimenti. Ma se dovessi darvi un consiglio spassionato, rivolto specialmente a chi non ha molto tempo, indico sicuramente il sito dell'esperto del settore (oltre che "amico di social network") Giacomo Mason: Intranet Management. Qui in due ore si può trovare praticamente tutto lo scibile sull'argomento, dalle piattaforme ai contenuti wiki, dal microblogging interno al knowledge management da inserire. Particolarmente illuminante è stata, appunto, la mappa dei contenuti per Intranet, dove è segnalato, in modo molto intuitivo, tutto quello che ci dovrebbe essere in una Intranet aziendale. Ve lo consiglio, specialmente se siete una PMI.

Per quanto mi riguarda (sono una sorta di piccola azienda anch'io), sul sito ho trovato anche decine di collegamenti ad altri siti e blog (italiani e stranieri) per approfondire le varie tematiche e realizzare un progetto. Il tutto in modo veloce, efficace e ... perfettamente gratuito. Eppure appena possibile mi comprerò sia il nuovo libro di Giacomo (nella foto) che quello vecchio. Perché? Perché così avrò due punti di riferimento, perfettamente complementari, per accrescere la mia formazione sul tema in modo strutturato e approfondito: il libro e il Web. Una dimostrazione su come si possa guadagnare con il gratis. Vi ricorda qualcuno? Vi do un indizio.

martedì 5 ottobre 2010

Ti presento le partite IVA

Ho comprato il Giornale delle Partite IVA, creatura di Francesco Bogliari (che non ha una partita IVA) che va a colmare una lacuna informativa clamorosa. Chiunque abbia provato a trovare informazioni su come aprire una partita IVA, su quali vantaggi/svantaggi offre e su quale regime scegliere, sa a cosa mi riferisco. Testi "copiaeincollati" in burocratese, quasi sempre inutili per chiarirsi davvero le idee. Ora c'è questo giornale, nuovo di zecca anche se con una grafica molto tradizionale, lo trovate in edicola (io l'ho preso in uno sperduto giornalaio della bassa modenese, quindi si trova anche fuori dalle metropoli). Una veloce recensione fatta dal sottoscritto, che la partita IVA e un blog dedicato (direttamente e indirettamente) a questa vita ce l'ha da un anno:

Pareri positivi:
  • Esserci. Ora 3,5 milioni di persone, gli "invisibili", hanno la possibilità di trovare qualcuno che parla di loro con cognizione di causa, con competenza e con capacità di scrivere. Non è cosa da poco.
  • Articoli focalizzati sui temi più complessi della libera professione (pensioni, INPS, chiarimenti sulle caratteristiche dei vari regimi, tassazione, maternità, etc.) spiegati con un lessico sufficientemente semplice da capire.
  • Sezioni sui pareri degli esperti, sempre utili quando non hai una persona di fiducia a cui chiedere (per quanto mi riguarda, aprire la partita IVA senza un esperto di fiducia è molto, molto rischioso).
  • Poche pagine pubblicitarie, molti contenuti.
 Pareri negativi:
  • Il costo. 4,50 Euro è un prezzo considerevole per una rivista mensile, al di là della qualità dei contenuti (Wired, a mio parere il mensile italiano di riferimento, costa 4 Euro ma con 30 Euro ci si abbona per due anni).
  • Le poche pagine dedicate alle testimonianze delle partite IVA. Qualche box qui e là (che sono le parti che ho letto con maggiore attenzione) ma si può fare molto di più, dando maggiore spazio ai tantissimi casi di successo del mondo reale.
  • L'assenza di riferimenti al Web. Avete una Fan page su Facebook e noi liberi professionisti utilizziamo un sacco di strumenti (efficaci e con bassi costi) a disposizione su Internet. Non sarebbe meglio parlarne di più?
  • Impostazione grafica della copertina: le pagine interne sono realizzate in modo semplice ma curato, mentre la copertina è nettamente migliorabile (in primis per impatto cromatico e immagini scelte).
La cosa più importante è che il secondo numero lo comprerò sicuramente, quindi il parere è positivo. Perché 3,5 milioni di persone hanno il diritto di avere qualcuno che, oltre a Dario di Vico del Corriere della sera, parla di loro. Ho però una personalissima considerazione finale: le (poche) pagine pubblicitarie sono di istituti bancari (tra i nostri peggiori nemici, diciamocelo chiaramente), fiere, libri di "allenatori mentali", agenzie pubblicitarie e riviste sullo yoga. So perfettamente che la pubblicità è vitale per qualsiasi giornale, soprattutto uno neonato, ma sinceramente queste non danno un grande valore aggiunto. Non vuole essere una critica, solo una constatazione di un lettore che ha accolto il giornale con entusiasmo. In bocca al lupo.

lunedì 4 ottobre 2010

Waste marketing: nel cassonetto c'è una ricchezza

Qualche post fa si parlava di Green Marketing e del perché un cittadino medio non conosce aziende attive nel settore delle biomasse. Perché sono fonti di energia rinnovabili di cui l'Italia è ricchissima ma, purtroppo, sono "brutte, non comunicabili". Un altro esempio sono i rifiuti, ambito che ho già trattato. La cronaca  incombe. Tutti abbiamo visto cosa sta succedendo a Napoli e dintorni. Non voglio entrare nel merito di questo ma, avendo collaborato con aziende attive nel settore della raccolta, nel riciclo e nel riutilizzo dei materiali, cosiddetti, di scarto, porto la mia testimonianza. Un mondo interessantissimo il "Waste Marketing" (l'ho coniato io ora, diritti riservati). Andando per ordine, ho avuto modo di vedere e conoscere l'intero ciclo dei rifiuti:
  • La raccolta, compresa quella differenziata, lavorando alla realizzazione dei contenuti del sito del Gruppo Veritas (la prima multiutility del Veneto per dimensioni e fatturato).
  • La selezione, collaborando con Eco-Ricicli Veritas (società specializzata nel separare rifiuti differenziati, in particolare VPL, ossia Vetro Plastica Lattine, e carta) per lo sviluppo del loro nuovo portale;
  • Il trattamento, la valorizzazione e lo smaltimento, operando insieme a Ecoprogetto Venezia per creare i contenuti di un nuovo sito che parlasse anche del controllo delle emissioni in atmosfera. 
Tutti e tre i siti sono online, pronti da consultare. Lo sapevate che vicino a Venezia (dove io sono nato e vissuto fino a poco tempo fa) ci sono due impianti all'avanguardia in Europa per la selezione e il trattamento del vetro? E che dai rifiuti si può ricavare "Combustibile derivato da rifiuti" (il CDR) da utilizzare in termovalorizzatori e che genera emissioni molto al di sotto dei limiti di legge? E che meno del 7% dei rifiuti totali va in discarica? I rifiuti sono una ricchezza, frase che può apparire paradossale ma che non lo è per nulla. Se opportunamente gestiti, i vari materiali possono avere una nuova vita, come prodotti e fonti di energia. Ma non si comunica a sufficienza. Pensate davvero che cittadini e aziende non siano interessate a sapere dove vanno a finire i prodotti che buttano nei cassonetti? Sbagliate.

La cronaca ci dice che sta per diventare operativo il SISTRI, il sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti, che utilizza la tecnologia per "tracciare" il percorso dei rifiuti. Ovviamente, le proroghe e i rinvii "all'italiana" sono numerosi ma è una novità da tenere d'occhio. Quando buttate via del vetro, pensate al fatto che si decompone naturalmente in 4.000 anni. Mentre può essere riutilizzato infinite volte, se opportunamente trattato. Ci sono macchine a scansione ottica che dividono i vari tipi di vetro analizzando pezzettini grandi come biglie numerose volte al secondo in base al colore. Tutto questo, a pochi chilometri da casa tua. Come è successo a me. L'innovazione sta anche nei rifiuti che vivono due volteMai sentito parlare di Terracycle?