giovedì 29 dicembre 2011

L'importanza di essere responsabili

Sulla questione se i blog siano morti, vivi o vivissimi, che va per la maggiore in questo epilogo del 2011, non ci voglio entrare per nulla. Non mi compete, viste anche le mie umili statistiche di accessi e visitatori. Però persone molto valide, che leggo ogni giorno, hanno scritto ottimi post in merito, che vanno oltre questa sterile questione. Ne cito alcuni perché, a mio parere, valgono molto più di un retweet o di una condivisione: in questo modo, accogliendoli in casa mia, voglio ringraziarli per avermi fatto riflettere. Ho scelto di dare la priorità a una frase, una citazione che condivido particolarmente e che voglio "fare mia", per poi citare il link.

Personalmente ritengo che il termine blog sia ormai una “parola scatolone”, troppo ampia di significati per poter dare un senso unico ed univoco al dibattito che pure continuo a seguire con attenzione ed i cui sviluppi mi piacerebbe affrontassero la questione del blog come format editoriale adottato anche da quotidiani e, appunto, superblog (Il Giornalaio, Pierluca Santoro, post "Fare luce sui blog").

Se hai qualcosa da dire, probabilmente il blog è il posto migliore per farlo. [...] Personalmente non so se ci sia un Rinascimento Blog, ma posso affermare in tutta tranquillità che in questi 10 anni io non ho smesso un attimo di leggere i blog e sono molto grato a tutti coloro che li usano per condividere idee, pensieri e spunti di riflessione (Blog Notes, Giuseppe Granieri, post "Blog e nuvole").

L’uso e l’abuso dei social network, per novità, per affezione, per facilità d’uso, per dipendenza da attenzione, vedono oggi un riflusso da parte dei blogger della prima ora o di quelli più consapevoli, non perché ci sia un male nell’uso dei social network e un bene nel blog, ma perché il blog mantiene e rafforza la propria identità digitale e la conserva nel tempo. [...] Arroccarsi sul proprio blog è un po’ come restare chiusi in casa con la porta aperta, lasciando entrare gli amici e i passanti, più o meno fedeli, ma la vita online è anche altrove (Pandemia, Luca Conti, post "L'anno della rinascita dei blog).

Ad alcuni miei clienti quest’anno ho imposto di andare a scavare nei loro archivi, in articoli cartacei, in ricette perdute, per riciclare, rivitalizzare, ripubblicare, prendere come spunto. [...] E quindi anche questo blog ricicla, via twitter, ogni tanto. Per fortuna ho sempre avuto l’ambizione di essere una terza pagina, e non un’ultimora. Del resto, chi gioca per il campionato dell’ultimora ha il vantaggio del picco delle ricerche correlate nell’immediato, chi gioca nel campionato evergreen, ha il vantaggio della vita infinita dei contenuti, che accumula capitale “sociale”, un poco per volta, una riga per volta  ([mini]marketing, Gianluca Diegoli, post "In lode al riciclo").

Faccio un veloce e personalissimo mash-up: il blog come nuovo formato editoriale, una sorta di terza pagina di approfondimento, può diventare un vero punto di riferimento, costante nel tempo, per tante persone. Tuttavia, deve superare i propri limiti tradizionali, finendo di essere troppo autoreferenziale e aprendosi davvero, e non solo a parole, verso quello che sta altrove, che siano Social Network o qualsiasi altra cosa. La parola d'ordine del 2012: responsabilità, non marchette (citando Pierluca Santoro).

Buon anno.

(Photo credits: Scuola Anticoli)

mercoledì 28 dicembre 2011

L'inutile conflitto tra testo e immagini

Lo ripeto spesso: un'immagine vale più di mille parole. A patto che sia un'istantanea perfetta per esprimerle tutte quelle parole (come quella qui sopra, che cito spesso). Non basta che sia un'immagine di grande impatto, di grafica perfetta, di colori espressivi, la cosa importante è che deve essere strettamente legata a ciò che vogliamo comunicare. Spesso, io in primis, ci facciamo affascinare dalla foto in sé, non dal suo significato. Mi spiego meglio: di questi tempi, a livello di comunicazione, vanno molto di moda le "infografiche", ossia la rappresentazione di dati e numeri in forma grafica. In generale, si inizia sempre più a parlare di visual storytelling (qui un ottimo articolo) anche in Italia, ossia di immagini che riescono a raccontare storie come i testi. Forse è solo moda, forse c'è di più. Quello che posso dire è che, per me, storia e immagini non possono prescindere l'una dall'altra, tranne rarissime eccezioni.

Ci sono foto che raccontano storie, in un secondo (vedi qui) ma sono rare. Ci vogliono numerosi fattori concomitanti che devono coesistere perché accada. Molto più spesso accade che una foto rafforzi molto un bel testo e viceversa. Riflettendoci su, non capisco perché si debba scindere questi due elementi. Negli ultimi giorni sono andato nell'azienda nella quale lavoro con la mia reflex (sono molto meno di un dilettante) e ho fatto alcune foto, perché mi serviva contestualizzare i messaggi che volevo esprimere scrivendo i contenuti. Sapevo quello che volevo scrivere e sapevo quale tipo di immagini mi mancava. Magari ne parlerò più avanti del risultato, per ora mi ritengo soddisfatto. La stessa cosa accade per questo blog: talvolta passo più tempo a cercare le foto giuste che a scrivere i post. Certe volte le azzecco, altre meno, ma so perfettamente quanto siano importanti.

Lo ammetto: le infografiche, spesso bellissime, non mi lasciano quasi nulla. Ne ammiro la struttura grafica, vedo dietro un'idea visiva notevole ma poi quelle informazioni non le ricordo mai. Mi resta impressa la forma ma non la sostanza. Soprattutto, se ne vedono talmente tante su riviste e su Internet, Social Network compresi, che quasi sono più interessanti le pubblicità (sì, è una provocazione). Magari è un problema mio, anche se ho qualche illustre conferma, ma ritengo che la combinazione testo-immagini, quella che ha fatto la fortuna della carta stampata negli ultimi secoli, sia ancora l'elemento migliore: più semplice, più completo, più efficace. Magari gli esperti di neuromarketing non saranno d'accordo, visto il "picture superior effect", ma secondo me il punto l'ha centrato, perfettamente, Jacek Utko: "spesso i redattori non capiscono che i grafici servono a vendere meglio i loro testi e, allo stesso modo, i grafici non capiscono che i lettori comprano soprattutto contenuti, non bellissima arte". Il suo punto di vista è del 2009 (ed esemplificato, di fatto, nell'immagine qui sotto) ma è più attuale che mai.



venerdì 23 dicembre 2011

La comunicazione realista

Il garage di HP*
Un approccio "realista". Questo è quello che ho sempre cercato di seguire nel mio lavoro di consulente (prima) e di responsabile della comunicazione aziendale (ora), ossia descrivere l'azienda per quello che davvero è, non per apparire. Sembra un concetto banale ma non lo è affatto, sia in positivo che in negativo. Quante volte ci siamo imbattuti in aziende che pensavamo piccoline, in base al giudizio del loro sito e della loro documentazione, e invece erano strutturate e organizzate, con più sedi all'estero? E quante altre volte ci siamo fatti l'idea di avere a che fare con aziende di un certo livello per scoprire poi che erano molto più piccole che medie imprese? Questo perché il mondo delle PMI è talmente eterogeneo che, letteralmente, non si può mai dire.

Recentemente, mi sono trovato proprio a discutere di questo. Il mio interlocutore sosteneva un approccio opposto ma, nella sostanza, altrettanto valido: far vedere quello che si vuole diventare, non quello che si è. Perché, si chiedeva, limitarsi all'esistente quando i clienti vogliono sapere come li saprai supportare da oggi in poi? Senza voler entrare in discorsi filosofici o in confronti simpatici ma sterili (realisti contro evoluzionisti), non si può prescindere da quello che si è. Se l'azienda è giovane, ha obiettivi ambiziosi e la situazione esistente è in divenire, il fatto di puntare l'orologio al futuro è una scelta sicuramente valida. Ci si espone al rischio che un cliente possa rimanere sorpreso quando ci contatta direttamente, non trovando quello che si aspetta, però è un rischio più che calcolato e, quindi, accettabile.

Ma ci sono dei limiti e faccio un esempio chiaro. Spesso le PMI italiane non comunicano volentieri dove hanno la sede se stanno in piccole città, temendo di essere percepite come "provinciali". Diciamolo chiaro, è un falso problema. La Ferrari, una delle aziende più conosciute e amate al mondo, è di Maranello (17mila abitanti) e lo comunica da sempre. La Ducati è "la casa di Borgo Panigale", che è un quartiere bolognese, mentre Illy (che esporta il suo caffé in 140 Paesi) comunica sempre che è di Trieste, mica di Milano. Perché la localizzazione della sede mai dovrebbe essere un limite per una PMI se non lo è per brand conosciuti a livello mondiale? Un'impresa deve presentare se stessa e la propria storia con sicurezza e onestà, senza false paure. Non capiterà mai che un cliente possa dire "non se ne fa nulla perché siete di questa piccola città" e lo stesso discorso vale per altri cento aspetti della comunicazione. "Il saggio si vergogna di vedere le proprie parole eccedere le proprie azioni" diceva Confucio. E le aziende sagge piacciono a tutti.

Buon Natale a tutti!

* Si tratta del vecchio garage dove HP mosse i primi passi, a Palo Alto. Ora è un monumento nazionale dello stato della California ed è stato protagonista di una campagna di comunicazione dell'azienda.

martedì 20 dicembre 2011

I Social Network del (mio) futuro


L'attività che faccio sui Social Network, oltre a tante ottime relazioni, porta anche visitatori sul mio sito e sul mio blog. Ma quanti? Alla luce di questa domanda, mi sono messo nei panni di una piccola azienda (quale, di fatto, ero fino a qualche settimana fa): che risultati misurabili ottengo grazie alla mia presenza nel mondo Social? Io sono, da sempre, specializzato nel rigido mondo del B2B, dove la grande maggioranza delle aziende non conosce ancora le potenzialità di comunicazione di questi strumenti, anzi li considera "perdite di tempo" e/o "sfogatoi pericolosi" (in realtà, non hanno proprio tutti i torti). Tuttavia, i contatti che mi sono creato negli ultimi anni mi sono stati molto utili per trovare persone e aziende con cui parlare, discutere e, anche, lavorare. I Social Network servono, a patto che si abbia l'onestà di ammettere quello che in realtà sono, ossia ottime fonti di opportunità per tanti, non per tutti. Non sono strumenti magici, non sono strumenti cattivi.

Analizzando i risultati ottenuti dal mio sito e da questo blog, risulta che Facebook mi porta il 60% di visite più di Twitter, dato ottenuto incrociando dati analitici con prove empiriche. Non sono stupito. Su Facebook sono attivo da molto più tempo (sono su Twitter da settembre 2011) e ho oltre il triplo di contatti. Tuttavia, molti di questi sono amici veri, mentre su Twitter mi relaziono quasi sempre con addetti ai lavori, quindi c'è più competenza specifica. Oltre a questi due, il resto mi porta poco. LinkedIn offre sempre qualche contatto di elevata qualità ed è uno strumento su cui vale la pena di perderci molto più tempo (mi aveva procurato un'opportunità professionale importante con una grossa azienda qualche mese fa). Slideshare mi ha dato un'ottima visibilità ma pochi risultati certi. Per il resto, Google+ è, per me, ancora un oggetto misterioso (grandi cerchie, poche discussioni interessanti, quasi nulla in termini di visitatori al sito e al blog) mentre su Friendfeed ho avuto ottimi riscontri in passato ma ora non più. Il resto, poco o nulla.

Qualche settimana fa mi ero posto la questione di decidere come spendere il mio tempo in rete. Tiro le somme: per il 2012 i due obiettivi "social" principali sono Twitter e Facebook, in ordine di priorità, e voglio ribaltare il dato del 60% di visitatori, a favore del primo. Non lavorando più da solo e avendo tante cose da fare nella mia nuova azienda, devo ottimizzare il mio tempo in rete per ottenere più qualità: Twitter mi offre questa opportunità. Per il resto, darò 6 mesi a G+ (è sempre Google, dopotutto) e insisterò su LinkedIn e Slideshare. Il resto avrà solo spiccioli di tempo, per scelta e per necessità. Ovviamente, nel 2012 potrebbero nascere nuovi Social Network (lo spazio probabilmente c'è, come ho già detto in passato) e li valuterò con attenzione. La mia azienda, tuttavia, oggi ha priorità più urgenti a livello di marketing e comunicazione e, come molte altre PMI italiane, ha bisogno di capire bene come può utilizzare questi strumenti, ci vuole tempo e formazione specifica. Ma ricordiamocelo sempre: non si vive di solo "social".

giovedì 15 dicembre 2011

I contenuti regnano, le mode meno


Due notizie, molto diverse tra loro, portano acqua al mulino di chi crea contenuti per il Web. Da una parte, Matt Cutts di Google ha dichiarato che il re dei motori di ricerca vuole dare grande visibilità alla qualità intrinseca del contenuto e non su come è realizzato il codice HTML che lo contiene. In più, ha ufficialmente negato che i siti realizzati senza seguire le logiche SEO siano effettivamente penalizzati (o addirittura estromessi) dalle ricerche di Google. In breve: non esistono trucchi di Search Engine Optimization validi, l'unica preoccupazione che si deve avere è scrivere ottimi contenuti, accessibili, interessanti, con buoni titoli. L'altra bella notizia è invece legata al parere di uno dei più grandi esperti americani di Content Management, Joe Pulizzi: la Content Curation va bene ma è più importante la Content Creation. Quindi, si sposta l'attenzione sulla realizzazione di testi nuovi e non, di fatto, sul miglioramento di quelli già presenti. Questa è la moda del 2012, a quanto pare.

Le due notizie sono molto importanti, perché sottolineano ancora una volta che la qualità dei contenuti fa la differenza. C'è però da dire una cosa, molto chiaramente: viviamo in un mondo colorato di varie tonalità di grigio, non solo di bianco e nero. Questo vale anche per la gestione dei contenuti online. Come nel Giugno del 2010 ero stato un po' scettico sulla priorità da dare alla cura dei testi (il contenuto, per regnare, deve essere per forza qualcosa di curato, di qualità, di interessante), oggi lo sono altrettanto per il ritorno dell'attenzione verso la creazione dei contenuti. Sono due lati della stessa medaglia, se si vede una o l'altra parte dipende dalla moda del momento. Per quanto riguarda Google, le affermazioni di Cutts collidono un po' con l'approccio collaborativo che hanno sempre tenuto con i (bravi) esperti SEO. Avere validi e competenti professionisti (come questi) che consigliano sulle parole chiave da usare e sulle soluzioni tecniche più efficaci, a mio parere, non può fare che bene alla visibilità di un'azienda.

Al di là di queste considerazioni, le due notizie dimostrano come la ricerca di qualità nella realizzazione e gestione dei contenuti sia sempre più importante. E questo non può farmi che piacere, c'è tanto lavoro da fare in questo senso (io lo sto facendo, proprio ora, per la mia azienda). Content is still king. Il re è più vivo che mai, viva il re.

Aggiornamento: a conferma che non c'è alcuna contrapposizione tra "contenutisti" e "seoisti", segnalo due bei post (qui e qui) fatti da esperti SEO sulla questione. In medio stat virtus.

lunedì 12 dicembre 2011

La creatività e la concretezza


Si parla spessissimo di creatività a livello di comunicazione, altrettanto spesso lo si fa con poca cognizione di causa. Si generalizza la potenza e l'utilità di un'idea folgorante, nuova, inedita, senza però andare nel concreto. Raramente, invece, accade di imbattersi in qualcosa di realmente creativo e di grande impatto. Leggendo un post della bravissima Elena Veronesi (una che non scrive mai cose banali, da seguire con attenzione) sugli "schizzi di comunicazione", ho scoperto il sito BootB (Brands Out Of The Box). Si tratta di un progetto di marketplace che vuole mettere insieme le idee di professionisti creativi con le necessità delle aziende a livello di comunicazione. In breve: un impresa crea un brief su quello di cui ha bisogno, lo condivide in questo spazio, vari professionisti propongono i loro progetti e quello che piace di più "vince" il budget. Il crowdsourcing comunicativo, insomma.

Bella idea ma andiamo a vedere nel dettaglio come la spiegano. Il sito, innanzitutto, ha un design favoloso, che trasuda creatività da tutte le parti. Ogni cosa, dalle immagini "disegnate a mano" al font, dall'impostazione dell'home page ai colori, tutto è scelto con grande cognizione di causa. Promettono creatività e la offrono subito, senza indugi. In più, il sito è un vero multilingua: la versione italiana, inglese e spagnola, ossia le tre che posso analizzare, hanno un gergo e un linguaggio del tutto verosimile, molto diretto e decisamente efficace. Volete sapere meglio come funziona? C'è un bel video che lo spiega, a vignette, passo dopo passo. In più, si trovano subito i progetti aperti (i brief), i clienti contenti e i migliori creativi. Insomma, in home page c'è tutto. L'hanno fatto i soliti americani? No, il fondatore è italiano, una bella notizia.

Ovviamente, non è tutto oro quel che è creativo. Alcune mie perplessità le ha già espresse PierLuigi Zarantonello in un post. Di fatto, il livello di consulenza è a progetto, non strategico, e il coltello dalla parte del manico ce l'hanno le aziende, che definiscono i budget senza una controparte e possono scegliere senza magari avere le capacità per farlo. In più, come sa chiunque abbia visto dal vivo una gara tra agenzie di comunicazione, il cliente può disporre di numerose nuove idee in modo praticamente gratuito (potendo poi realizzarle anche autonomamente). Resto convinto che per tante aziende, specialmente medio-piccole, questo tipo di soluzione non vada bene perché manca una figura strategica in grado di aiutarle a crescere davvero (i clienti citati, infatti, sono grandi aziende).

Insomma, il crowdsourcing creativo funziona davvero? Qui e qui potete leggere giudizi molto più autorevoli del mio, io mi limito al mio campo. Al di là di quale sia l'idea che ci sta sotto, il sito di BootB la spiega benissimo con grande impatto visivo verso l'utente. Le scale di Escher, anche se impossibili, catturano la nostra attenzione e ci affascinano, no? Questo portale è un esempio di creatività comunicativa davvero efficace e concreta, con contenuti di grande spessore. Una visita la merita anche solo per questo.

martedì 6 dicembre 2011

Mamma, ho riconosciuto il marchio


Sabato mattina, a casa, stiamo facendo colazione. Mio figlio (3 anni appena compiuti) mi chiede di passargli un pacco, con queste esatte parole: "Papà, mi dai la scatola della Coop?" Io, in quel momento, non ci faccio caso e gliela do. Poi rifletto. Nessuno gli ha nominato il nome del marchio, abbiamo appena preso la scatola dalla cantina (è la prima volta che la vede) e lui, avendo 3 anni, non sa leggere. "Piccolo, come fai a sapere che è della Coop?" chiedo io. "Papà, è scritto qui" e indica il marchio. Sa già distinguere un marchio, senza poter capire cosa c'è scritto. La cosa mi incuriosisce, provo con un altro marchio di una nota azienda che fa prodotti per bambini. "Chicco, papà", mi dice lui, quasi con sufficienza. Scopro, con un certo stupore, l'impatto che i marchi hanno su bambini ancora così piccoli.

Sapevo bene che mettere supereroi o personaggi dei cartoni animati rende più riconoscibili alcuni prodotti e li rende più appetibili di altri (pensiamo all'onnipresente gattina col fiocco rosso della Sanrio). Quelli con i loro eroi preferiti sono percepiti come "più buoni", il che non mi è mai piaciuto ma è un dato di fatto (qui c'è la ricerca della rivista Pediatrics). E diciamocelo, ci cadiamo anche noi adulti, se no i testimonial non esisterebbero. Tuttavia, questa consapevolezza di saper distinguere un marchio nudo e crudo da un altro non la sospettavo. Alcuni vedono questa cosa molto negativamente (un esempio qui), io mi limito a constatare il numero immenso di input che i bambini non solo ricevono ma riescono ad analizzare e gestire con velocità inaspettata. Scopro oggi che è cosa normale per i bambini dai 4 ai 7 anni, il mio ne ha 3 appena compiuti. E ci rifletto su.

Questo conferma, ancora una volta, quanto sia importante gestire la comunicazione verso i bambini, sia da produttori di informazioni che da riceventi. Basta vedere come due ambiti del tutto normali nel rapporto con i bambini, ossia il raccontare storie e lo spiegare le cose attraverso il gioco, siano diventati, oggi, due potenti strumenti di marketing: storytelling e gamification. Questo vuol dire che genitori e bambini, su molte cose, ragionano e/o agiscono in modo più simile di quanto pensiamo (e il neuromarketing, forse, ha un ruolo in tutto questo). Ripeto, non c'è nulla di malvagio in questo contesto, dobbiamo solo essere consapevoli che il ruolo di genitori ci impone di vivere e capire queste dinamiche insieme ai nostri figli. Ripeto, insieme. Ed è una bella notizia. Il mondo evolve velocissimo in questo senso e forse il nostro bimbo ci arriva prima di noi. Dobbiamo insegnare tanto quanto dobbiamo imparare, il gioco funziona così.

Aggiornamento: un bell'articolo di Adweek sul tema dice, tra le altre cose, che un bambino americano di 3 anni riconosce, in media, 100 marchi aziendali.  Sono parecchi. Per sdrammatizzare, guardatevi i video di Adam Ladd, uno su tutti.

(Photo credits: campagna pubblicitaria per far mangiare le carote ai bambini come fossero "cibo spazzatura" http://innovationtrail.org/post/trick-kids-eating-baby-carrots-branding-them-junk-food)

giovedì 1 dicembre 2011

Nella guerra dei biscotti perdono tutti


Non voglio entrare nel merito della polemica che si è accesa tra Barilla e Plasmon, si trova tutto qui. Quello che mi viene da dire è che queste "guerre tra ricchi" servono come le "guerre tra poveri", ossia a nulla. Anzi, perdono tutti. Non mi sono mai piaciute le pubblicità comparative perché ognuno può segnalare i dati e le informazioni che vuole, quelle positive, dando un messaggio fuorviante e non obiettivo. Qualcuno potrebbe obiettare che la comunicazione d'impresa fa esattamente questo: da le notizie positive e non quelle negative. Ma c'è una bella differenza tra il dire che io sono bravo a fare qualcosa (non dicendo che sono scarso a farne un'altra) e che io sono più bravo di un altro solo in certe specifiche cose. Ho sempre pensato che la fiducia bisogna guadagnarsela direttamente con chi ci sta davanti (o chi ci compra, in questo caso), non mettendo in cattiva luce il compagno di banco.

Da compratore di prodotti per la famiglia, faccio alcune semplici considerazioni. Scopro oggi che i Piccolini non sono adatti ai bambini sotto ai tre anni: dove era scritto? Appena arrivo a casa controllo, non lo sapevo. Quello che so è che sulla pagina del sito di Barilla mi spiegano, oggi, che sono "la linea di prodotti pensata per i bambini" e che "piacciono anche ai grandi". Se leggo, come sul comunicato stampa di Barilla, che è "pasta per tutta la famiglia", io includo mio figlio per primo, che li mangia da quando aveva due anni essendo "il piccolino" di casa. E, lo dico chiaro, continuerà a farlo (e anche la sua sorellina, appena avrà qualche dentino), a patto che Barilla non inizi a dirmi che sono io che non ho capito che non erano prodotti adatti a un 2enne. Non metto screenshot del sito, mi fido di Barilla e so che non cambierà le carte in tavola. Io mi fido delle aziende, spero sempre che loro facciano altrettanto visto che sono io a dare loro soldi, e non viceversa.

Altra considerazione: l'attacco diretto di Plasmon (che fa parte di una compagna di comunicazione molto strutturata, con newsletter e giochi a premi) è molto soggettivo e parziale. Io vado al supermercato e non decido tra Plasmon e Macine, al limite li compro tutti e due. Qui ha ragione Barilla, sono prodotti con target diversi. Le domande nascono spontanee: sono solo le Macine ad avere quei valori o anche altri tipi di prodotti Barilla? E quelli di altri produttori? In più, cosa può provocare l'assunzione di quelle sostanze? In definitiva, ho più domande che risposte. Una pubblicità che genera incertezza e dubbi, a mio parere, non è mai una buona idea. Magari Plasmon ha ragione ma non è questo che conta. Le mamme e i papà (anche noi facciamo la spesa o sbaglio, cara Barilla?) vogliono essere sicuri di quello che comprano e di quello che danno ai loro figli. Due colossi del settore alimentare, oggi, ci hanno resi più insicuri. Non ne avevamo bisogno (e abbiamo la memoria lunga).

"Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire." Jean-Paul Sarte

Aggiornamento (13 dicembre 2011): la Barilla metterà delle apposite scritte sulle confezioni incriminate (quindi, nella sostanza, ammette l'errore) mentre la Plasmon è stata costretta, dal giudice, a sospendere la campagna pubblicitaria, definita "ingannevole e denigratoria". Due sconfitti, zero vincitori.

lunedì 28 novembre 2011

Il convegno riciclato


Solo qualche giorno fa parlavo dell'importanza di emanciparsi dal ruolo di "venditori di fumo" di cui, a volte, siamo accusati di essere. Spesso ingiustamente ma non sempre, purtroppo. Il fatto era che dovevano dimostrare di poter raggiungere risultati tangibili e misurabili e iniziare così a creare una vera e propria cultura della comunicazione in Italia. Mentre mi apprestavo a pubblicare quel post, mi veniva segnalato un convegno sul Marketing low cost: bello, mi sono detto, se avessi tempo andrei a sentire come Cristina Mariani, autrice del libro dal titolo omonimo, spiega queste cose ai piccoli e medi imprenditori friulani. Il problema è che a quel convegno Cristina non c'è, è segnalato un altro professionista (a cui non farò pubblicità). Strano, mi dico io, il titolo e la scaletta seguono in modo molto fedele l'indice e le terminologie dei suoi libri. Allora decido di contattarla, lei cade dalle nuvole e inizia a verificare.

L'esito della sua ricerca lo si trova riassunto qui. Direi che non servono tanti altri commenti. Solo due considerazioni: possibile che gli organizzatori di un convegno non proprio piccolino non abbiano trovato di meglio da fare che prendere spunto, a mani basse, da contenuti molto riconoscibili e, soprattutto, tutelati dal diritto d'autore? Per di più, perché un professionista con una buona esperienza, come quello coinvolto dall'evento, si è prestato a presentare contenuti "copiati e incollati"? Non si può avere la certezza matematica del plagio ma qualunque persona di buon senso, confrontando i temi trattati, non ci metterebbe molto a farsi un'opinione precisa. Quello che dico è: c'è tanto da fare per creare una cultura di marketing e comunicazione in Italia, ci sono tantissime cose da dire, da approfondire, da evidenziare. A chi giova fare così? A nessuno, è un gioco in cui tutti vengono danneggiati in tempi brevissimi: chi scrive i libri, chi organizza i convegni, chi spende soldi e tempo per parteciparvi. Ne vale la pena? La risposta è semplice, chiara ed evidente: no.

Aggiornamento: Giuliano Pellizzari, il relatore del convegno "incriminato", ha scritto un commento a questo post, scelta di buon senso, trasparenza e, anche, coraggio. Sotto c'è la mia risposta, che riassunta è: ti credo e, per questo, dovresti fare una bella e diretta verifica con l'ente organizzatore, così da sciogliere ogni dubbio in merito.
 

giovedì 24 novembre 2011

Chi ascolta, impara (ed è simpatico a tutti)*

Un bel post del blog Brain Traffic (gente da seguire attentamente se ti interessa il content management) enuncia una regola semplice e per nulla innovativa ma che consiglio sempre di ripetere una volta alla settimana, preferibilmente il lunedì: ascoltare è (ancora) il miglior modo di imparare qualcosa. Spesso, con il passare degli anni e dei progetti, la nostra esperienza ci porta a essere conservativi: abbiamo realizzato un sito su un'azienda che opera nelle telecomunicazioni o nell'edilizia e ci convinciamo, sbagliando, che le soluzioni che abbiamo scelto in quel caso siano valide sempre. Non è così. Perché questo significherebbe non ascoltare chi ci sta davanti, ossia il responsabile di un'azienda con una sua storia, le sue peculiarità, i suoi obiettivi, i suoi pregi e difetti. La nostra esperienza, utilissima per evitare errori, è molto meno efficace per avere nuove idee ("non si impara con l'esperienza, perché la sostanza delle cose cambia continuamente" diceva Susan Sontag).

Come spesso fanno, gli americani consigliano un numero preciso di regole da seguire, spesso concetti stereotipati che si alternano a buone idee per ottenere un "bel numero" (le 10 regole, 5 buoni consigli, etc.). In questo caso, le condivido tutte ma, allo stesso tempo, le faccio mie, dando le mie priorità:

  • Restiamo curiosi: quando ci approcciamo a una nuova azienda, abbiamo voglia di conoscere dove ci troviamo ma, allo stesso tempo, sentiamo il bisogno di dimostrare di essere un "plus" che giustifichi il nostro incarico. Questo ci porta spesso a limitare il nostro raggio d'azione e a volerci occupare della storia aziendale solo dal nostro arrivo in poi. Ci sono PC, armadi, persone, cassetti e schedari che hanno tesori al loro interno e di cui nessuno si ricorda. Dobbiamo essere noi a esplorare l'azienda e ascoltare le persone che ci vivono dentro, non limitandoci alla mappa che ci hanno dato. 
  • Facciamo le domande stupide: siamo davanti a un nuovo imprenditore e dobbiamo conoscere cosa fa e come la pensa su tante cose. Abbiamo la fortuna di potergli fare domande che il 90% dei dipendenti più esperti non farebbe mai, per la paura di perdere credibilità nei suoi confronti. E dobbiamo sfruttarla. Spesso le domande stupide portano a risposte molto interessanti e a idee brillanti. "Mi scusi, potrebbe sembrare una domanda stupida, ma..." è sempre un'ottima tecnica per iniziare un discorso interessante.
  • Facciamo domande aperte: le risposte che iniziano e finiscono con un sì o un no non sono quasi mai utili a raggiungere scopi ambiziosi. Non si può entrare nello specifico di una questione in questo modo. Bisogna coinvolgere le persone che abbiamo davanti con domande in grado di aprire certe serrature. Spesso le buone risposte vengono da dove meno te le aspetti: lasciare alle persone la possibilità di esprimere almeno un'idea non è mai una cattiva idea.
  • Riflettiamo, respiriamo, parliamo: lo ammetto, ho enormi margini di miglioramento su questo aspetto perché la passione per il mio lavoro mi porta a parlare d'impulso, a rispondere d'istinto, a dire subito la mia. Cinque secondi in più di silenzio e di riflessione prima di parlare possono farci solo bene, perché le nostre opinioni sono come lampadine a basso consumo: ci mettono un po' a diventare chiare e luminose ma poi durano a lungo. E sono molto più efficaci per chi le deve usare.

Queste, ovviamente, non sono solo regole professionali, ma consigli validi anche per la vita normale, come ci ricorda Erin Anderson, l'autrice del post citato all'inizio. Verissimo. La regola delle domande stupide, tuttavia, fuori dall'ufficio funziona molto meno. Specialmente se siete davanti alla persona che amate.

* Titolo ispirato da un aforisma di William Mizner: "Chi sa ascoltare non soltanto è simpatico a tutti ma prima o poi finisce con l'imparare qualcosa"

(Photo credits: Flickr, Portobeseno)

lunedì 21 novembre 2011

Il marketing dei "risultati misurabili"

Per scrivere un documento di marketing, la rete è una risorsa fondamentale. Qualunque sia la nostra esperienza e le nostre competenze, andare comunque alla ricerca di un modo nuovo di pensare, di valutare e di sviluppare certe attività è sempre una bella idea. Questo è quello che ho fatto nei giorni scorsi, impegnato nella realizzazione di un piano di marketing e comunicazione relativo a un prodotto della mia nuova azienda. Un momento molto interessante, come spesso accade, è quello di "inventarsi" (non trovo termine migliore) gli obiettivi da raggiungere. Per avere qualche conferma e qualche idea, ho cercato in rete "obiettivi di marketing e comunicazione", questo è quello che ho trovato. Riassumo per non farvi perdere tempo: nulla di nuovo. Ma c'è di più.

In ogni sito, documento, piano, presentazione o video, il mantra relativo agli obiettivi è, quasi sempre, lo stesso: "devono essere chiari, realistici e, soprattutto, misurabili". Il concetto di "misurabili" è sempre interessante, perché presuppone numeri e soglie, non semplici commenti. Ne ho fatti tanti di piani ma questo momento è sempre fondamentale perché ogni progetto fa storia a sé. In ogni caso, impegnarsi oggi a rispettare un risultato che otterrai tra settimane o mesi, con molteplici fattori esterni che andranno a interagire con quei numeri, è una bella sfida. Allora in rete ho cercato di più, ossia qualche esempio di traguardo misurabile, magari in un settore di attività vicino a quello di cui mi occupo ora (IT e software). Cosa ho ottenuto? Poco o niente. Tutti a dire che bisogna arrivare a un traguardo, quasi nessuno che dice quale possa essere. Non si citavano esempi, non si approfondiva il discorso, ci si fermava al "misurabili". In sintesi, contenuti poco utili per chiunque, non solo per me.

I professionisti come me sono abituati a sentirsi dire che sono "venditori di fumo". Il motivo è che in Italia esiste una scarsa cultura di marketing e di comunicazione: invece, ogni giorno, persone bravissime aiutano le proprie imprese e i propri clienti a comunicare bene, ottenendo risultati più che misurabili, reali. Non sottolineando che il progetto è "andato bene", ma portando numeri relativi a un aumento di visite nel sito, una crescita effettiva (in percentuale) dei contatti con i potenziali clienti o un aumento dell'efficienza del CRM (più risposte e più soluzioni comunicate ai clienti in tempi inferiori). Queste informazioni, tuttavia, non risultano dalle ricerche di Google, rimangono all'interno del rapporto tra persona e azienda. Ed è giusto così. Ma se un imprenditore cerca di capire quale sia un obiettivo di marketing, il mio compito è anche quello di dargli esempi chiari e comprensibili. Se trova "aumentare il fatturato", abbiamo una conferma: chi l'ha scritto ha come obiettivo "far crescere le vendite di fumo". E ci sta riuscendo.

(Photo credits: Flickr, NIC- OLA)

martedì 15 novembre 2011

"Plans are great. But missions are better"


Iniziamo dalla mission e dalla vision. Così mi sono detto quale nuovo responsabile marketing e comunicazione della mia nuova società. Ho sempre pensato che, iniziando un lavoro da zero e avendone la possibilità, scegliere di chiedere all'azienda chi è davvero e dove vuole andare sia una bella idea. Non è una cosa facile, perché spesso è l'impresa stessa a non saperlo oppure ad avere un'immagine sbiadita di sé stessa. Da consulente, mi sono sentito spesso dire che ero io a non aver capito niente (anche in termini ben più coloriti): talvolta avevano ragione, solo talvolta. Per cui, questa volta, ho cercato di porre le basi subito, chiarendo alla prima occasione utile perché mi servivano quelle informazioni e quale importanza avessero "tre righe di testo scritte bene" per un'azienda. Dovevo mettermi subito in sintonia con la società, perché entrando in un posto con quindici anni di esperienza che tu non hai vissuto, presentarsi nei dovuti modi è sempre un ottimo modo di iniziare una relazione. Io sono questo e vorrei diventare questo, e voi?

Un post di Seth Godin (segnalatomi da Cristina Mariani, che con lui ci dialoga spesso e volentieri via mail) è arrivato a fagiolo. "Plans are great. But missions are better. Missions survive when plans fail, and plans almost always fail". Diciassette parole in tutto che spiegavano esattamente quello che sentivo di dover fare. Mi ero detto: prima dobbiamo capire chi siamo e dove vogliamo arrivare, poi faremo capire fuori di qui cosa possiamo fare per le aziende. Sembra tutto molto semplice ma, come diceva Leo Longanesi, "il facile è complicatissimo". Provate a guardare le mission e le vision scritte in giro per il Web, molto spesso ci sono concetti banali, triti, ritriti e incollati là (un esempio dei tantissimi). "Grandi parole, nessuna sostanza", tanto per citare ancora Cristina. Penso che il problema principale sia sempre lo stesso: non si percepisce l'importanza di quelle tre righe, che diventano quindici e non dicono nulla. Le parole, invece, sono importantissime.

Accade anche a me, lo ammetto: quando mi chiedono, per un modulo o una richiesta, che tipo di lavoro faccio, scrivo "impiegato". Non è così, è la cosa più semplice da scrivere per risolvere un problema che non percepisco come importante. Sul mio CV o sul mio sito però metto cose diverse, se no non lavorerei. La stessa cosa deve fare un'azienda, per spiegare chi è sia all'esterno che all'interno, dove coesistono anime diverse ma tutte importanti. Per questo, io ho iniziato dalla base, ho scritto cosa ne avevo capito io della società in dieci giorni di lavoro, spiegando perché avevo usato quelle parole e il loro significato. Il mio obiettivo non era essere originale, ma dire solo la verità. Risultato: i responsabili dell'azienda hanno letto, riflettuto, si sono confrontati, hanno soppesato il tutto e mi hanno chiamato. Come è andata? Una bella soddisfazione e una bella conferma.

(Photo Credits: il geniale Hugh MacLeod, Gapingvoid)

giovedì 10 novembre 2011

C'è spazio per un Social Business Network?


Come segnala puntualmente il blog dell'agenzia Ippogrifo (seguitelo, ne vale la pena), Google+ apre alle pagine aziendali. Notizia assolutamente non inaspettata, era nell'aria da mesi ed ora tutti i brand potranno buttarsi nel nuovo Social Network di Google per creare relazioni con le proprie cerchie. Come per Facebook, grandi marchi hanno subito approfittato dell'opportunità. Io però voglio partire da una considerazione: sia Facebook che Google+ nascono come ambienti per le persone, non per le aziende. Le relazioni che si creano in questi ambienti sociali sono molto sbilanciate in favore degli utenti, il che obbliga le imprese a "perdere il controllo" e a entrare in un campo molto più neutro rispetto a un passato dominato da pubblicità e comunicati stampa. Tutto bello, ci mancherebbe, ma questo discorso vale molto per il B2C, per la relazione tra azienda e "consumatore" (parola che odio), pochissimo per il B2B. Si tratta di un dato di fatto.

Le imprese che producono betoniere, software aziendali, servoattuatori, carrelli elevatori e tanti altri prodotti destinate ad altre aziende, e non a singole persone, sono tagliate fuori da una prospettiva di relazioni sociali online? Ne ho già parlato qualche settimana fa dell'idea di creare un Social Business Network e questa cosa mi sta facendo riflettere parecchio. Perché non si può creare una relazione tra azienda e azienda, che segua regole simili ma non uguali a quelle di Facebook o G+? Magari già tanti ci hanno provato (Ning era un bell'esperimento) e nessuno ci è riuscito. Ognuno di noi ha un'idea geniale al giorno ma di Zuckerberg ne abbiamo uno solo, al mondo.

Il più grande limite, oggi, è che le imprese stesse, specialmente quelle italiane, non vogliono essere messe sullo stesso piano delle altre (anche se in fiera accade esattamente questo). E molte non hanno interesse a comunicare con nuovi canali, seguendo l'assunto "gli agenti vendono già con i loro mezzi, perché cambiare?" che ricorda molto "noi viaggiamo già bene con i cavalli, a cosa ci servono le automobili?" Per me le pagine gialle aumentate potrebbero essere utilissime per creare nuovi network e nuovi progetti, semplificando notevolmente anche le procedure di relazione con i clienti-aziende e non solo con i clienti-persone. Ora lavoro in un'azienda piena di programmatori e magari, davanti a un caffé, proverò ad avere qualche commento tecnico. Una cosa è sicura: un Social Business Network renderebbe la vita più semplice a me, meno a loro. Perché usare è più semplice di costruire, quasi sempre.

P.S. I risultati dell'analisi della mia vita sociale, che citavo qui, sono in forte ritardo perché ho una principessa di 15 giorni a cui dare tutta la mia attenzione. Ci vuole pazienza. :-)

venerdì 4 novembre 2011

L'intervento al KnowCamp, YouTube e i segni del destino

Il KnowCamp è finito da quasi un mese ma mi ha dato tanti di quei contatti e tante di quelle soddisfazioni che volevo proprio trovare una scusa per riparlarne (l'avevo già fatto qui). L'occasione arriva puntuale ieri, quando gli organizzatori, sempre bravissimi, mi hanno segnalato che il video del mio intervento è disponibile su YouTube. Lo trovate, in due atti, qui sotto.



Per questo, rilancio la questione: se avete richieste, domande, questioni o critiche da fare (meglio se costruttive), sono qui. Il rapporto tra Internet ed energie rinnovabili rimane sempre una mia priorità anche se da due giorni lavoro in un'azienda che fa software. Tutta un'altra cosa, no? Il caso vuole tuttavia che il primo compito che ho avuto è stato quello di analizzare vantaggi e svantaggi di un sistema per il monitoraggio dell'energia utilizzata in casa o in azienda, in tempo reale. Si vede che è destino.

mercoledì 2 novembre 2011

Il nuovo marketing? Tutto da scrivere

Domani inizia la mia nuova vita professionale. Non sarò più consulente esterno ma, finalmente, quello che le decisioni dovrà prenderle in prima persona: si tratta di un salto che volevo fare da tanto e ora ci sono. La domanda che mi rimbalza nella testa oggi è questa: come deve essere un responsabile marketing e comunicazione oggi? Viviamo in un'epoca di cambiamenti veloci, i punti fermi tradizionali come le 4 P o le 5 W non servono più a molto. Ci vuole attenzione costante alle ultime novità, agli esempi positivi, agli errori da evitare. Il libro del nuovo marketing si sta scrivendo, ora, su Internet e ha milioni di pagine, non c'è un inizio e una fine, non c'è un indice e non rimane immutato nel tempo. Allora, quale strada seguire?

Un indizio arriva da una survey di IBM, analizzata da Marketing Journal. Questo sondaggio sostiene che il futuro del marketing e della comunicazione è caratterizzato da cinque valori fondamentali: semplicità, chiarezza, coerenza, affidabilità e lealtà. Apparentemente sembrano abbastanza ovvi, in realtà non è così ed è opportuno ribadirlo. Pensiamo ai progetti di marketing che abbiamo visto e gestito, ai responsabili che li curavano, alle idee che venivano espresse. Sono certo che molti di questi non avevano al loro interno quei cinque valori, tutti insieme. E qui forse sta la vera sfida: creare una relazione tra l'azienda e i clienti che sia davvero semplice, chiara, coerente, affidabile e leale. A parole è facile, è nei fatti che sta tutta la differenza del mondo. E qui la cosa si fa molto più difficile, perché il marketing deve portare e difendere questi valori fin dall'inizio della catena produttiva, fin dal'idea iniziale di un nuovo prodotto e servizio. In Italia, il marketing arriva spesso a "prodotto finito", quando c'è da promuoverlo. Non basta.

Un altro dato (positivo) che emerge dalla survey di IBM è che le “comunicazioni pirotecniche”, se non sono supportate da una reale qualità del prodotto, avranno sempre meno possibilità di successo. A dire la verità, l'ho sempre pensato. Il punto però è lo stesso di prima. Non serve fare fuochi artificiali, serve "preparare la festa" fin dall'inizio in modo tale che con semplicità e coerenza si possano rendere soddisfatti i nostri clienti. Servono figure jolly in grado di poter parlare con tutti, all'interno e all'esterno dell'impresa, per ottimizzare quello che viene comunicato. Penso che la più grande sfida dell'uomo di marketing e comunicazione, oggi, sia proprio questa: armonizzare il dentro e il fuori dell'azienda, per capire come le potenzialità possano essere espresse al meglio. Il fatto che non ci siano bibbie da consultare e facili acronimi a cui attaccarsi forse è un grande vantaggio: ognuno dovrà dare il meglio si sé per capire cosa può fare nella propria specifica realtà. Non ci sono facili ricette, ci sono solo tante nuove idee da trovare e sperimentare. Bello, no?

giovedì 27 ottobre 2011

Idee chiare sempre, anche in fiera

Francesco Tioli, il primo a destra, e parte del team OLI
al Samoter 2011
Certe chiacchierate di lavoro nascono così, dal nulla, solo per condividere un'idea o un'opinione, e diventano discussioni molto valide. Questo è accaduto qualche giorno fa parlando di fiere, un tema che tratto spesso (vedi  qui) perché è uno dei rari momenti di comunicazione che le aziende italiane percepiscono come fondamentale, non sempre a ragione. Si parlava del SAIE 2011, manifestazione sul mondo dell'edilizia italiana giudicata molto deludente da un giovane responsabile di un'azienda con cui collaboro. Se cercate sul Web, troverete numeri e giudizi esaltanti sulla fiera (come qui), ma li troverete sempre, per chi organizza è sempre e comunque un successo: un grosso limite a livello di credibilità. A me invece interessa approfondire il punto di vista di chi ci va per lavoro, per trovare contatti utili, per annusare l'aria del mercato. Come me la pensa Francesco Tioli, quasi 31 anni, del Sales Department della OLI di Medolla (Modena).

Ciao Francesco, siete andati al SAIE con uno stand e al MADE Expo (organizzato negli stessi, identici giorni ndr) come visitatori: un giudizio?
La mia opinione, e non da oggi, è che siano fiere preistoriche e sorpassate già da qualche anno, oltre ad essere molto costose e, forse, poco credibili. Ho ricevuto due e-mail dove gli organizzatori saltavano la gioia degli espositori e i numeri dei visitatori: mi sono quasi vergognato per loro, non era assolutamente quello che ha visto chiunque ci sia andato. C'è da riflettere su questo.

Hai un approccio sincero e diretto, lo stesso che ho visto in fiera. Un atteggiamento molto diverso da tanti altri, anche nel rapporto coi vari competitor.
Il comportamento da tenere in fiera è lo stesso da tenere in ogni momento della nostra vita da commerciali. Noi abbiamo la fortuna di essere stati “cresciuti e formati” in un’azienda che della parola concorrente ne ha fatto un significato e uno stile diverso. Concorrenti non sono mai stati coloro con cui non si deve parlare e che devono essere“massacrati” al fine di portare a termine la trattativa con i clienti. Al contrario, sono persone con le quali si divide un mercato, con le quali ci si spartisce informazioni e ai quali dobbiamo strappare i clienti con la forza del servizio e del prodotto, e non con la forza della presunzione. Questo ci porta ad avere un sorriso non obbligato e una naturale disponibilità a uno scambio di saluti verso chiunque si presenti e voglia di interagire con noi. C'è sempre molto da imparare.

Condivido quello che dici ma non è un approccio facile. Mi puoi fare un esempio pratico?
Tante volte mi sono fermato in stand di concorrenti per cercare di fare due chiacchiere, educatamente, con i loro ragazzi, ma c’era sempre un piccolo muro tra di noi. Li ho anche invitati a prendere il caffè nel nostro stand e… sto ancora aspettando. Altre volte invece sono andato in altri stand, ci sono stato una mezz’ora abbondante, abbiamo parlato del più e del meno e mi hanno offerto loro il caffè. Poteva essere corretto col cianuro ma sono stati molto gentili… ed io sono ancora vivo! Una differenza sostanziale. E non è così difficile.

Siete tutti giovani in azienda, forse essere cortesi e spontanei vi viene più naturale di altri. Mi puoi svelare altri segreti per migliorare l'approccio con i visitatori in fiera?
In Germania moltissimi espositori, dalle piccole ditte familiari alle grandi multinazionali, tendono a trasformare lo stand in qualcosa di interattivo con i clienti o potenziali tali. Ruote della fortuna, concorsi a premi o “stime di peso” con cui vincere prodotti Hi-Tech o semplici palloni, tutte iniziative che portavano costantemente gente al loro interno. Cosa importante, il target di età e professionalità non era affatto basso, non erano ragazzini. Tutti sembravano rilassati e sorridenti, pure i tedeschi (Francesco ride). Non credo che il segreto sia fare lotterie ma far capire alla gente la propria elasticità, cosa che serve ad abbattere i primi muri che ostacolano la conversazione.

Torniamo in Italia, al SAIE di Bologna. Cosa ha funzionato e cosa no, secondo te?
Obiettivamente, il nostro stand poteva essere curato meglio, responsabilità che condividiamo con l’ente fiera. Tuttavia, anche in questo caso, i pochi visitatori che sono passati hanno dimostrato di volerci conoscere meglio. Se l'azienda investe tempo e denaro in modo costruttivo, si possono sempre creare e rafforzare relazioni, in modo veloce ed efficace. Prendo ad esempio OLI Germania, la nostra filiale tedesca: i ragazzi hanno lavorato benissimo prima della fiera Powtech di Norimberga, telefonando ai clienti e invitandoli personalmente a visitare lo stand per prendersi anche "un caffè italiano", sfruttando la provenienza del gruppo. Un'idea semplice ma gestita benissimo, i risultati si sono visti già dal primo giorno.

Chi viene da voi in fiera percepisce che siete una PMI italiana in costante crescita e con sedici filiali nel mondo?
Questo è un punto a nostro sfavore, non riusciamo a far capire quanto siamo grandi e che potenzialità abbiamo. Facendo parte di un grande gruppo italiano, WAM Group, un assoluto leader nei suoi settori di riferimento, spesso veniamo percepiti come un semplice satellite di WAM e non per quello che siamo realmente, ossia una delle sue punte di diamante. Sta a noi far cambiare questa idea. Ad esempio, la fase post fiera è sempre stata fatta con massimo impegno ma senza utilizzare regole precise e condivise, dall'invio di documentazione alle telefonate di follow-up. Probabilmente, già una semplice lettera di ringraziamento a chi è passato per lo stand farebbe capire quanto ci teniamo davvero a loro. Oggi non glielo comunichiamo, questo è un limite che dobbiamo superare.

Concludendo, qual'è il vostro vero segreto, il punto di forza principale, in fiera e fuori?
Sono due, l'elasticità e un servizio a 360 gradi, due vantaggi reali per il cliente. Ma, come dicevo prima, glielo comunichiamo troppo poco. Dovremmo metterli in mostra in fiera, sul sito, sui cataloghi, ovunque. Dobbiamo migliorare e lo sappiamo, ci stiamo già lavorando su.

Le opinioni di Francesco sono molto importanti. Perché vengono da un ragazzo di 31 anni (non ancora compiuti) che è uno dei punti di forza di una società italiana che opera a livello mondiale. In OLI non è affatto un caso raro: Luca Paltrinieri, che si occupa del marketing, non ha neanche 28 anni. Speriamo ce ne siano tanti in giro di trentenni con le idee chiare e che, soprattutto, abbiano l'opportunità di metterle in pratica. Le nostre imprese ne hanno un disperato bisogno.

lunedì 24 ottobre 2011

Sempre libero non professionista, ma diverso

I biplani virano ogni tanto, se no che gusto c'è? Questo blog, che ha eletto questo aereo a suo simbolo, ha più di due anni ed è nato quando ho aperto la partita IVA. Al tempo sentivo un impulso di comunicare, anche e me stesso, mentre la mia vita professionale stava cambiando tanto e troppo in fretta. Nel primo post spiegavo perché l'avevo aperto e il significato del suo titolo, che giocava sul fatto che non mi sentivo, per nulla, un libero professionista, anche perché neppure la scelta di diventarlo era stata libera ma del tutto obbligata dopo la (brutta) fine del mio rapporto in agenzia (con strascichi che continuano anche oggi). Il termine stesso, come sa chiunque pratichi la libera professione, è un perfetto ossimoro, una contraddizione in termini. In più, mi faceva pensare a un fantomatico "professionista della libertà", un'ottima parodia per tanti politici di oggi.

Bene, quel percorso iniziato oltre due anni fa è giunto al termine. Un'azienda mi ha chiesto di fare il salto, di diventare il suo responsabile marketing e comunicazione. Me lo ha domandato dopo un colloquio formale che di formale non aveva nulla: due ore di parole semplici e chiare, atmosfera idilliaca, feeling immediato. In più, solo ad entrare in quell'azienda, mi sono sentito bene, a mio agio, in mezzo a ragazzi sorridenti ma molto impegnati in quello che stavano facendo. Mi sono rivisto in loro e non mi capita spesso. Di aziende ne ho viste tante e ho imparato a fidarmi dell'istinto, della prima impressione, del sorriso sincero della segretaria, della gentilezza di quello che ti apre e ti indica in quale porta entrare. Sono cose che, quasi sempre, contano più dei dati di fatturato e degli utili per giudicare davvero un'impresa. Perché l'azienda non le può costruire a tavolino, si generano da sole in ambienti che funzionano.

Dalla prossima settimana lavorerò in azienda. Qualcuno potrebbe dire che mi sono accontentato di un posto sicuro, di una nuova comfort zone come direbbe il mio amico Nicola Iarocci. In parte è così, lo ammetto. Ma tutto era perfetto. La mia voglia di chiudere da partita IVA dopo che il governo ha di fatto cancellato il mio regime sotto i tuoi occhi solo per avere entrate in più (e spenderle in modi sbagliati). La nascita della secondogenita. Il desiderio di avere un lavoro a cinque minuti di distanza e non di clienti a 180 chilometri. Ma una cosa c'è da dire, su cui sono sicuro: era quello che volevo e non da ieri. Ho sempre pensato che il mio vero banco di prova professionale sarebbe stato quello di mettermi in gioco per promuovere un'azienda mia, non solo dire agli altri cosa fare e cosa non fare. Ho avuto questa possibilità e l'ho colta. Come è sempre successo per le decisioni grandi della mia vita, sono certo che non mi pentirò mai della scelta, anche se dovesse andare male (toccando ferro).

Libero non professionista è, oggi, una parte di me e rimane vivo e vegeto. Farò un post ad hoc per scrivere cosa mi ha dato (tantissimo) e le tante lezioni che ho imparato. Solo l'accezione del titolo cambia e diventa più filosofica: resterò libero di dire quello che penso sul mio lavoro, che è anche la mia passione, senza per forza metterci sopra il mio biglietto da visita di free lance. Cambierò punto di vista, mettendomi nei panni di chi ho spesso criticato, ossia le imprese. D'altronde, i biplani devono virare, dicevamo all'inizio, ma decollano e atterrano sempre allo stesso modo. In azienda mi hanno già detto che non c'è alcun problema per quello che scrivo qui, anzi che i miei post li leggono molto volentieri. Capito perché ho scelto senza indugio?

(photo credits: Flickr, Observe the Banana)

venerdì 21 ottobre 2011

Non è facile raccontare una storia

Si parla tanto,forse troppo, di Storytelling, ossia di come, per comunicare bene (anche nel caso di imprese), bisogna raccontare storie. Ossia creare percorsi narrativi in cui il lettore, o lettore/cliente nel caso di comunicazione d'impresa, possa immedesimarsi, emozionarsi, sentirsi attratto. Mi piaceva approfondire il discorso e allora mi sono comprato qualche libro specifico, cominciando da questo. L'inizio è pieno di esempi, specialmente di comunicazione politica, con numerose citazioni relative all'impiego dello storytelling nelle amministrazioni americane, da Reagan a Bush. Appunto, un sacco di esempi, alcuni significativi, ma volevo di più. In un libro sul "narrare storie", nelle prime quaranta pagine non ne ho trovata neanche una in cui immedesimarmi, emozionarmi o sentirmi attratto. Per questo, è ancora chiuso nella mia borsa, non bocciato ma fortemente ridimensionato. Magari poi migliora, vediamo.

Il volume che campeggia sul mio comodino invece è Open, l'autobiografia di Andre Agassi. Un libro che mi attira ogni qual volta ci passo vicino e che sto divorando, 300 pagine in 10 giorni con una bimba in procinto di nascere (l'ha fatto ieri ed è bellissima) e solo ritagli di tempo da dedicare alla lettura. Volete sapere cosa vuol dire raccontare una storia, fare storytelling? Leggete questo libro, non l'altro. Qualcuno mi potrebbe dire che la biografia di un tennista può interessare o meno. Ma qui non è il tennis il protagonista, ma un intreccio di storie, emozioni, vittorie, fallimenti, amori e amicizie di qualità narrativa rara. Una prosa che, letteralmente, ti obbliga a continuare a leggere.

Il segreto? In realtà, sotto c'è l'opera di un ghostwriter, J. R. Moehringer, già vincitore di un premio Pulitzer per il giornalismo di approfondimento. Un professionista che ha fatto un signor lavoro, sotto tutti i punti di vista. Perché raccontare una storia non è solo scrivere bene, è molto di più. E un libro su un tennista può insegnarvi molto di più di uno dal titolo "storytelling".

giovedì 13 ottobre 2011

Hanno inventato il Mistake Marketing?


Stamattina controllavo i miei blog di riferimento, come spesso accade ho dato un'occhiata a quello di Luca De Biase che segnala che Steve Yegge di Google ha pubblicato per errore un post (eccolo qui) in cui si dimostra molto critico verso Google+ e verso la filosofia aziendale che sta dietro alla sua creazione. Leggendo il testo, trovo delle riflessioni molto articolate e sufficientemente condivisibili, critiche molto strutturate e costruttive. E mi si è accesa una lampadina. Per errore? Il pensiero è andato subito a un altro errore, ossia allo smarrimento del nuovo e misterioso iPhone 5 in un bar. La Apple, poi, è pure recidiva su questo tipo di dimenticanze, visto che avevano perso il prototipo del modello precedente l'anno prima. Riassumo: i Top Management di aziende con i due marchi più potenti del mondo fanno a gara a chi fa errori così lampanti che un semplice stagista, al loro posto, farebbe la fine di Fantozzi?


"L'America è un paese di giovanotti" diceva Ralph Waldo Emerson. Sì, aggiungo io, giovanotti geniali ma molto distratti, a quanto pare (e gli inglesi non sembrano meglio). E lo dice uno come me che in vita sua di cellulari ne ha persi tre (uno pure all'Ikea). Ma io con gli americani ci ho lavorato, sono maniacali nell'ideare, pianificare e verificare l'andamento dei progetti. Prendono il lavoro molto, spesso troppo, seriamente. Per questo, a me questa cosa mi puzza un po'. Certo, mi fa piacere vedere che superprofessionisti di Big G e Apple fanno i miei stessi errori ma questo effetto "guarda, sono come me" non può essere calcolato? Quello che mi fa pensare sono le differenze a livello di risultato, di effetti, di comunicazione. I loro errori, tutti sempre in buona fede, fanno parlare dell'azienda, fanno vedere che c'è dibattito interno (come nel caso di Google), fanno vedere che discutono di prodotti innovativi al bar e non nei loro enormi e chiusi uffici (come quelli di Apple). Un errore è, per definizione, disinteressato, in questo caso non è così, di fatto.

Di marketing mistakes ne abbiamo visti tanti, che sia arrivato invece il momento del Mistake Marketing (definizione mia, su Google non c'è)? Magari è solo una mia sensazione, arrivata in un giovedì mattina di riflessione mattutina, magari sto esagerando. Siamo umani, dopotutto. Siamo tutti uguali, con i nostri pregi e con i nostri difetti, i nostri limiti e le nostre virtù. Vogliamo tutti capire se l'iPhone 4S è davvero valido e tutti discutiamo sul fatto che Google+ funzioni bene o meno. No, un momento, non è vero, non lo facciamo tutti. Stavo cadendo nel tranello? Il Mistake Marketing quindi esiste davvero? Non lo so. Quello che so è che ogni uomo è il prodotto dei suoi errori (come scrisse Corrado Alvaro) ma li facciamo tutti in modo diverso. E disinteressato, grazie a Dio.

Io, però, ne sto parlando qui. Risultato raggiunto, cari colleghi americani.

mercoledì 12 ottobre 2011

Masochismo comunicativo

Spesso mi capita di aver bisogno di "casi di insuccesso", progetti di comunicazione negativi e autolesionisti a livello di immagine da far vedere in azienda per spiegare, in poche parole, le cose da NON fare mai. Gli esempi, positivi o meno, servono sempre per far capire le cose in modo veloce ed efficace. Quasi sempre ci devo pensare un po'. Oggi invece ho un ottimo esempio, un'idea talmente brutta che uno si chiede, semplicemente: ma perché? Eccola. Tutto vero.

(grazie perla segnalazione a Suzukimaruti, Twitpic)

Aggiornamento: sulla pagina di Vendola su Facebook appare un commento alla notizia. Vi risparmio la lettura, perché aggrava ulteriormente il danno, rendendo il tutto davvero grottesco. Non dice "abbiamo fatto un errore, scusateci tutti" ma "non è mica un guru della sinistra, al netto del cordoglio [...] noi siamo per il software libero". Peggio la toppa del buco, si dice a Venezia. E qui il buco era bello grosso. Consoliamoci e ridiamoci un po' su con i Selcrologi.

lunedì 10 ottobre 2011

Cronache da un KnowCamp perfetto

Sabato scorso ho fatto un intervento al KnowCamp di Modena, parlando del rapporto tra Internet ed energie rinnovabili. Il video integrale lo trovate qui: ci sono tre filmati, cercando con le freccette mi trovate al minuto 42 di uno dei tre. Se volete, potete fare considerazioni, critiche e valutazioni dove volete, da qui ai Social Network: a me interessano molto. Qui sotto c'è un'immagine di me e di Gianluca Diegoli, che moderava, così forse è più semplice cercare dove sono e dove parlo.


Inutile dilungarsi troppo, vado subito al sodo. #kc2011, l'hashtag dell'evento, è stato Trend Topic di Twitter per tutta la giornata. Perché? Organizzazione favolosa: sale, computer, video, buffet, logistica, tutto perfetto. In più, c'era quella bellissima atmosfera che è impossibile creare a tavolino, nasce solo se persone valide si trovano insieme per parlare di argomenti validi. Per tutto questo c'è solo da ringraziare Nicola Ballotta e Matteo Fantuzzi di Saidmade per l'ottimo lavoro. In più, ho avuto modo di rivedere molte persone che avevo già conosciuto in altri Camp, conoscere dal vivo contatti abituali in rete (uno su tutti, il "giornalaio" Pier Luca Santoro) e fare quattro chiacchiere con ragazzi (e ragazze, come Biljana che mi ha pure intervistato per il sito Sottobosco) mai visti prima come fossimo vecchi amici. Un risultato notevole per un semplice sabato soleggiato di inizio ottobre. Vi consiglio assolutamente di vedere tutti gli interventi, ne vale assolutamente la pena. Ripeto, assolutamente. Due su tutti:
  • Nicola Bonora (Mentine) che analizza e distrugge il sito di Trenitalia, con una dose di ironia unica e (parla prima di me, minuto 20).
  • Nicola Iarocci che spiega nel suo ignite (5 minuti, ogni 15 secondi le slide cambiano da sole) come uscire dalla Comfort Zone, concetto illuminante sul quale sto ancora riflettendo (nel mio stesso video, dopo 2 ore e 55 minuti).
Ah, quasi dimenticavo. Qui sotto c'è la mia presentazione, qui le trovate tutte (Sean Carlos, Luca Panzanella e tante altre persone che dovete conoscere, prima o poi). Se avete ancora bisogno di un motivo per andare a un Barcamp come questo, mi sa che dovete rileggere il post dall'inizio, per penitenza.

giovedì 6 ottobre 2011

Resteremo affamati, resteremo folli. O almeno ci proveremo.

Mai avuto un Mac, mai amato il mondo Apple, mai apprezzato molto la loro politica commerciale. Ma il mondo oggi ha perso un genio (che non si era mai laureato) e Apple lo onora in home page. Oggi non è un bel giorno.

Essere l'uomo più ricco al cimitero non mi interessa. Andare a letto la notte sapendo che abbiamo fatto qualcosa di meraviglioso, quello mi interessa.


Nota: il Corriere della sera è l'unico quotidiano italiano che ha fermato le rotative alle 2 di notte (quando è arrivata la notizia) per mettere la notizia in prima pagina (grazie a Pier Luca Santoro, come sempre). Bravi!

mercoledì 5 ottobre 2011

Wikilibertà


Oggi, cercando le solite informazioni di lavoro sul Web, ho digitato un link di Wikipedia. Mi è apparsa questa schermata. Il panico: non c'è più Wikipedia?! Leggendo il loro comunicato stampa, si capisce che è una sospensione temporanea per protestare contro il DDL Intercettazioni e il famigerato comma 29:

«Per i siti informatici, ivi compresi i giornali quotidiani e periodici diffusi per via telematica, le dichiarazioni o le rettifiche sono pubblicate, entro quarantotto ore dalla richiesta, con le stesse caratteristiche grafiche, la stessa metodologia di accesso al sito e la stessa visibilità della notizia cui si riferiscono.»

Una presa di posizione fortissima da parte di un sito generato dagli utenti (Wikipedia non ha una redazione) che è diventato un punto di riferimento informativo fondamentale per chiunque, oggi, voglia informarsi su Internet. Politici e giornalisti compresi. Non venitemi a dire che è inaffidabile, lo è tanto quanto l'Enciclopedia Britannica. In più, ogni persona di buon senso sa che deve consultare più fonti per avere la certezza di quanto afferma. Ora serve una riflessione. Quel comma è sbagliato e va contro il diritto di informazione, tutelato dall'art. 21 della nostra Costituzione. Volete saperne di più? Andate su Wikipedia. Un nostro diritto che deve essere difeso in modo forte. Per quanto mi riguarda, queste parole sono solo l'inizio.

Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza non merita né la libertà né la sicurezza (Benjamin Franklin)

lunedì 3 ottobre 2011

Internet e sostenibilità: una storia d'amore?

Il fine settimana che arriva farò un intervento al KnowCamp di Modena, parlando di cultura e di comunicazione nel settore delle energie rinnovabili. Quello che mi interessa sottolineare è che, in un settore di indubbio interesse per ogni cittadino che usi l'energia elettrica e il riscaldamento in casa, c'è pochissima cultura. Le persone non sanno la differenza tra un pannello solare termico e uno fotovoltaico, non sanno cosa sia la geotermia (e l'Italia è il Paese geotermico per eccellenza nell'Europa continentale), non sono consapevoli di come si possano sfruttare le biomasse, ossia gli scarti vegetali e animali, per produrre energia. E non per colpa loro. Spesso ci si ferma alla paura dell'inquinamento, acustico o odoroso, quasi come se i gas di scarico dei combustibili fossili non fossero nocivi.

Io mi sono chiesto: chi deve informare i cittadini? Gli enti e le imprese. Chi deve far crescere questo settore per creare una sostenibilità economica, oltre che ambientale? Le aziende. E cosa fanno per creare una "cultura verde"? Non molto, in verità. Prendiamo il caso di Internet, uno strumento formidabile per promuovere in modo adeguato un tema relativamente nuovo e complesso come quello delle energie rinnovabili, della sostenibilità, dell'impatto ambientale. Ecco qualche dato emerso dall'analisi dei siti di un campione di 120 imprese italiane che hanno partecipato a Solarexpo 2011:
  • Metà delle aziende italiane hanno un sito Internet "fatto bene", il resto sono portali vecchi e poco usabili;
  • Metà delle imprese non aggiorna i propri siti, lasciando le notizie del 2010 o del 2009 come principali. 
  • I contenuti sono frutto di veloci copia e incolla, poco curati e poco di impatto verso gli utenti.
  • Solo il 13% dei siti prevede collegamenti con i Social Network (un anno fa erano il 9%, la crescita c'è ma è molto lenta).
Stanno perdendo un'occasione? Che consigli si possono dare a quelle aziende? La presentazione qui sotto è un'anticipazione dei temi che approfondirò al KnowCamp. Vi aspetto a Modena sabato 9 Ottobre per discuterne insieme.

venerdì 30 settembre 2011

Uscire fuori dal tunnel (dei neutrini)

Il caso del comunicato stampa sul "tunnel dei neutrini" (#tunnelgelmini) è ormai famoso. Molti dei commenti sono stati duri, molto duri (basta cercare su Google, se ne trovano a decine), altri un po' più morbidi (vedi qui). Notizia di ieri è che il portavoce, Massimo Zennaro, 38enne padovano, si è dimesso. Senza dubbio, la gaffe è stata grossa ma la gestione di questi casi, a livello di comunicazione, fa vedere le vere competenze che si hanno nel tutelare la propria immagine e quella dell'organizzazione in cui si opera. Facciamo un veloce confronto, tanto per capirci.

Caso #tunnelgelmini 
Esce il comunicato stampa (oggi è ancora online, senza note né correzioni), in rete si nota quasi subito il grossolano errore e cresce giustamente la polemica e la satira. Cosa fa il Miur? Incarica l'ufficio stampa di diramare una nota in cui si afferma che "la polemica è destituita di fondamento e assolutamente ridicola", perché un tunnel effettivamente c'è anche se è lungo un chilometro (la nota ufficiale è qui). Rileggete il comunicato stampa incriminato, il testo è chiaro e cita testualmente un tunnel "tra il Cern ed i laboratori del Gran Sasso, attraverso il quale si è svolto l'esperimento". Qui non c'è solo la fisica ma anche la grammatica, la pezza è, quindi, peggiore del buco: secondo errore, più grave del primo perché non è una gaffe (in buona fede) ma una scusa che non regge. Martedì sera, in televisione, il Ministro La Russa dice che i Ministri non scrivono i comunicati stampa e per questo non è colpa della Gelmini. Certamente non li scrivono, ma neanche li leggono e li approvano? Ne dubito fortemente. Oggi arrivano le dimissioni da portavoce di Zennaro, il cui vero motivo, a mio parere, non dovrebbe essere la gaffe in sé ma il carente operato in termini di crisis management,

Nella sostanza, l'errore rimane, il danno di immagine pure e non è stato fatto nulla per alleggerirlo a livello di comunicazione. A livello di gaffe, altri ne hanno fatte di peggiori e sono ancora al loro posto.

Caso 57 Stati
Campagna elettorale 2008, Barack Obama è in piena attività nella sua corsa verso la Casa Bianca quando dichiara solennemente ai giornalisti: "Over the last 15 months, we’ve traveled to every corner of the United States. I’ve now been in 57 states? I think one left to go. Alaska and Hawaii, I was not allowed to go to even though I really wanted to visit, but my staff would not justify it" (tutto vero, vedi qui). Insomma, l'attuale Presidente aveva dichiarato che gli Stati Uniti avevano, in totale, 60 Stati, 10 in più delle stelle nella Stars and Stripes. Una catastrofe comunicativa? Certo ma gestita magistralmente, con semplicità. Barack Obama infatti dichiara alla stampa: "I understand I said there were 57 states today. It's a sign that my numeracy is getting a little, uh". Ammette l'errore, sottolinea di averlo fatto per stanchezza, si scusa personalmente in modo indiretto ed elegante.

Nella sostanza, nessuno si ricorda la gaffe né il danno d'immagine (tranne qualcuno che cerca disperatamente di trovare chiavi di lettura alternative, arrampicandosi su ipotesi deliranti). Forse perché Obama si circonda di specialisti di comunicazione più validi, come Cody Keenan (qui sotto a sinistra)?


Immaginiamo un'Italia diversa. Montano le polemiche e i comprensibili sbeffeggi, la Gelmini indice una conferenza stampa dove ammette l'errore "alla Barack Obama", assumendosi la responsabilità quale vertice del suo dicastero. Immaginiamo una nota per i media: "Abbiamo preso una cantonata solenne nella fretta di partecipare ai festeggiamenti per la riuscita di un esperimento storico. Visto il Ministero che rappresento, devo dare il buon esempio a milioni di studenti: io e il mio staff invitiamo qui a Roma tutti i ricercatori italiani coinvolti nel progetto per complimentarci ma soprattutto per farci dare qualche lezione di fisica. Evidentemente, un ripasso non può farci che bene". Mettete tutto in "burocratese", mantenendo lo stesso concetto. Un modo migliore di uscire dal "tunnel dei neutrini", non credete?

Aggiornamento
: Massimo Zennaro, oltre a mantenere il suo posto di Direttore Generale alla comunicazione del MIUR, farà da consulente a Barbara Berlusconi. Questa è l'Italia reale, purtroppo.