giovedì 29 dicembre 2011

L'importanza di essere responsabili

Sulla questione se i blog siano morti, vivi o vivissimi, che va per la maggiore in questo epilogo del 2011, non ci voglio entrare per nulla. Non mi compete, viste anche le mie umili statistiche di accessi e visitatori. Però persone molto valide, che leggo ogni giorno, hanno scritto ottimi post in merito, che vanno oltre questa sterile questione. Ne cito alcuni perché, a mio parere, valgono molto più di un retweet o di una condivisione: in questo modo, accogliendoli in casa mia, voglio ringraziarli per avermi fatto riflettere. Ho scelto di dare la priorità a una frase, una citazione che condivido particolarmente e che voglio "fare mia", per poi citare il link.

Personalmente ritengo che il termine blog sia ormai una “parola scatolone”, troppo ampia di significati per poter dare un senso unico ed univoco al dibattito che pure continuo a seguire con attenzione ed i cui sviluppi mi piacerebbe affrontassero la questione del blog come format editoriale adottato anche da quotidiani e, appunto, superblog (Il Giornalaio, Pierluca Santoro, post "Fare luce sui blog").

Se hai qualcosa da dire, probabilmente il blog è il posto migliore per farlo. [...] Personalmente non so se ci sia un Rinascimento Blog, ma posso affermare in tutta tranquillità che in questi 10 anni io non ho smesso un attimo di leggere i blog e sono molto grato a tutti coloro che li usano per condividere idee, pensieri e spunti di riflessione (Blog Notes, Giuseppe Granieri, post "Blog e nuvole").

L’uso e l’abuso dei social network, per novità, per affezione, per facilità d’uso, per dipendenza da attenzione, vedono oggi un riflusso da parte dei blogger della prima ora o di quelli più consapevoli, non perché ci sia un male nell’uso dei social network e un bene nel blog, ma perché il blog mantiene e rafforza la propria identità digitale e la conserva nel tempo. [...] Arroccarsi sul proprio blog è un po’ come restare chiusi in casa con la porta aperta, lasciando entrare gli amici e i passanti, più o meno fedeli, ma la vita online è anche altrove (Pandemia, Luca Conti, post "L'anno della rinascita dei blog).

Ad alcuni miei clienti quest’anno ho imposto di andare a scavare nei loro archivi, in articoli cartacei, in ricette perdute, per riciclare, rivitalizzare, ripubblicare, prendere come spunto. [...] E quindi anche questo blog ricicla, via twitter, ogni tanto. Per fortuna ho sempre avuto l’ambizione di essere una terza pagina, e non un’ultimora. Del resto, chi gioca per il campionato dell’ultimora ha il vantaggio del picco delle ricerche correlate nell’immediato, chi gioca nel campionato evergreen, ha il vantaggio della vita infinita dei contenuti, che accumula capitale “sociale”, un poco per volta, una riga per volta  ([mini]marketing, Gianluca Diegoli, post "In lode al riciclo").

Faccio un veloce e personalissimo mash-up: il blog come nuovo formato editoriale, una sorta di terza pagina di approfondimento, può diventare un vero punto di riferimento, costante nel tempo, per tante persone. Tuttavia, deve superare i propri limiti tradizionali, finendo di essere troppo autoreferenziale e aprendosi davvero, e non solo a parole, verso quello che sta altrove, che siano Social Network o qualsiasi altra cosa. La parola d'ordine del 2012: responsabilità, non marchette (citando Pierluca Santoro).

Buon anno.

(Photo credits: Scuola Anticoli)

mercoledì 28 dicembre 2011

L'inutile conflitto tra testo e immagini

Lo ripeto spesso: un'immagine vale più di mille parole. A patto che sia un'istantanea perfetta per esprimerle tutte quelle parole (come quella qui sopra, che cito spesso). Non basta che sia un'immagine di grande impatto, di grafica perfetta, di colori espressivi, la cosa importante è che deve essere strettamente legata a ciò che vogliamo comunicare. Spesso, io in primis, ci facciamo affascinare dalla foto in sé, non dal suo significato. Mi spiego meglio: di questi tempi, a livello di comunicazione, vanno molto di moda le "infografiche", ossia la rappresentazione di dati e numeri in forma grafica. In generale, si inizia sempre più a parlare di visual storytelling (qui un ottimo articolo) anche in Italia, ossia di immagini che riescono a raccontare storie come i testi. Forse è solo moda, forse c'è di più. Quello che posso dire è che, per me, storia e immagini non possono prescindere l'una dall'altra, tranne rarissime eccezioni.

Ci sono foto che raccontano storie, in un secondo (vedi qui) ma sono rare. Ci vogliono numerosi fattori concomitanti che devono coesistere perché accada. Molto più spesso accade che una foto rafforzi molto un bel testo e viceversa. Riflettendoci su, non capisco perché si debba scindere questi due elementi. Negli ultimi giorni sono andato nell'azienda nella quale lavoro con la mia reflex (sono molto meno di un dilettante) e ho fatto alcune foto, perché mi serviva contestualizzare i messaggi che volevo esprimere scrivendo i contenuti. Sapevo quello che volevo scrivere e sapevo quale tipo di immagini mi mancava. Magari ne parlerò più avanti del risultato, per ora mi ritengo soddisfatto. La stessa cosa accade per questo blog: talvolta passo più tempo a cercare le foto giuste che a scrivere i post. Certe volte le azzecco, altre meno, ma so perfettamente quanto siano importanti.

Lo ammetto: le infografiche, spesso bellissime, non mi lasciano quasi nulla. Ne ammiro la struttura grafica, vedo dietro un'idea visiva notevole ma poi quelle informazioni non le ricordo mai. Mi resta impressa la forma ma non la sostanza. Soprattutto, se ne vedono talmente tante su riviste e su Internet, Social Network compresi, che quasi sono più interessanti le pubblicità (sì, è una provocazione). Magari è un problema mio, anche se ho qualche illustre conferma, ma ritengo che la combinazione testo-immagini, quella che ha fatto la fortuna della carta stampata negli ultimi secoli, sia ancora l'elemento migliore: più semplice, più completo, più efficace. Magari gli esperti di neuromarketing non saranno d'accordo, visto il "picture superior effect", ma secondo me il punto l'ha centrato, perfettamente, Jacek Utko: "spesso i redattori non capiscono che i grafici servono a vendere meglio i loro testi e, allo stesso modo, i grafici non capiscono che i lettori comprano soprattutto contenuti, non bellissima arte". Il suo punto di vista è del 2009 (ed esemplificato, di fatto, nell'immagine qui sotto) ma è più attuale che mai.



venerdì 23 dicembre 2011

La comunicazione realista

Il garage di HP*
Un approccio "realista". Questo è quello che ho sempre cercato di seguire nel mio lavoro di consulente (prima) e di responsabile della comunicazione aziendale (ora), ossia descrivere l'azienda per quello che davvero è, non per apparire. Sembra un concetto banale ma non lo è affatto, sia in positivo che in negativo. Quante volte ci siamo imbattuti in aziende che pensavamo piccoline, in base al giudizio del loro sito e della loro documentazione, e invece erano strutturate e organizzate, con più sedi all'estero? E quante altre volte ci siamo fatti l'idea di avere a che fare con aziende di un certo livello per scoprire poi che erano molto più piccole che medie imprese? Questo perché il mondo delle PMI è talmente eterogeneo che, letteralmente, non si può mai dire.

Recentemente, mi sono trovato proprio a discutere di questo. Il mio interlocutore sosteneva un approccio opposto ma, nella sostanza, altrettanto valido: far vedere quello che si vuole diventare, non quello che si è. Perché, si chiedeva, limitarsi all'esistente quando i clienti vogliono sapere come li saprai supportare da oggi in poi? Senza voler entrare in discorsi filosofici o in confronti simpatici ma sterili (realisti contro evoluzionisti), non si può prescindere da quello che si è. Se l'azienda è giovane, ha obiettivi ambiziosi e la situazione esistente è in divenire, il fatto di puntare l'orologio al futuro è una scelta sicuramente valida. Ci si espone al rischio che un cliente possa rimanere sorpreso quando ci contatta direttamente, non trovando quello che si aspetta, però è un rischio più che calcolato e, quindi, accettabile.

Ma ci sono dei limiti e faccio un esempio chiaro. Spesso le PMI italiane non comunicano volentieri dove hanno la sede se stanno in piccole città, temendo di essere percepite come "provinciali". Diciamolo chiaro, è un falso problema. La Ferrari, una delle aziende più conosciute e amate al mondo, è di Maranello (17mila abitanti) e lo comunica da sempre. La Ducati è "la casa di Borgo Panigale", che è un quartiere bolognese, mentre Illy (che esporta il suo caffé in 140 Paesi) comunica sempre che è di Trieste, mica di Milano. Perché la localizzazione della sede mai dovrebbe essere un limite per una PMI se non lo è per brand conosciuti a livello mondiale? Un'impresa deve presentare se stessa e la propria storia con sicurezza e onestà, senza false paure. Non capiterà mai che un cliente possa dire "non se ne fa nulla perché siete di questa piccola città" e lo stesso discorso vale per altri cento aspetti della comunicazione. "Il saggio si vergogna di vedere le proprie parole eccedere le proprie azioni" diceva Confucio. E le aziende sagge piacciono a tutti.

Buon Natale a tutti!

* Si tratta del vecchio garage dove HP mosse i primi passi, a Palo Alto. Ora è un monumento nazionale dello stato della California ed è stato protagonista di una campagna di comunicazione dell'azienda.

martedì 20 dicembre 2011

I Social Network del (mio) futuro


L'attività che faccio sui Social Network, oltre a tante ottime relazioni, porta anche visitatori sul mio sito e sul mio blog. Ma quanti? Alla luce di questa domanda, mi sono messo nei panni di una piccola azienda (quale, di fatto, ero fino a qualche settimana fa): che risultati misurabili ottengo grazie alla mia presenza nel mondo Social? Io sono, da sempre, specializzato nel rigido mondo del B2B, dove la grande maggioranza delle aziende non conosce ancora le potenzialità di comunicazione di questi strumenti, anzi li considera "perdite di tempo" e/o "sfogatoi pericolosi" (in realtà, non hanno proprio tutti i torti). Tuttavia, i contatti che mi sono creato negli ultimi anni mi sono stati molto utili per trovare persone e aziende con cui parlare, discutere e, anche, lavorare. I Social Network servono, a patto che si abbia l'onestà di ammettere quello che in realtà sono, ossia ottime fonti di opportunità per tanti, non per tutti. Non sono strumenti magici, non sono strumenti cattivi.

Analizzando i risultati ottenuti dal mio sito e da questo blog, risulta che Facebook mi porta il 60% di visite più di Twitter, dato ottenuto incrociando dati analitici con prove empiriche. Non sono stupito. Su Facebook sono attivo da molto più tempo (sono su Twitter da settembre 2011) e ho oltre il triplo di contatti. Tuttavia, molti di questi sono amici veri, mentre su Twitter mi relaziono quasi sempre con addetti ai lavori, quindi c'è più competenza specifica. Oltre a questi due, il resto mi porta poco. LinkedIn offre sempre qualche contatto di elevata qualità ed è uno strumento su cui vale la pena di perderci molto più tempo (mi aveva procurato un'opportunità professionale importante con una grossa azienda qualche mese fa). Slideshare mi ha dato un'ottima visibilità ma pochi risultati certi. Per il resto, Google+ è, per me, ancora un oggetto misterioso (grandi cerchie, poche discussioni interessanti, quasi nulla in termini di visitatori al sito e al blog) mentre su Friendfeed ho avuto ottimi riscontri in passato ma ora non più. Il resto, poco o nulla.

Qualche settimana fa mi ero posto la questione di decidere come spendere il mio tempo in rete. Tiro le somme: per il 2012 i due obiettivi "social" principali sono Twitter e Facebook, in ordine di priorità, e voglio ribaltare il dato del 60% di visitatori, a favore del primo. Non lavorando più da solo e avendo tante cose da fare nella mia nuova azienda, devo ottimizzare il mio tempo in rete per ottenere più qualità: Twitter mi offre questa opportunità. Per il resto, darò 6 mesi a G+ (è sempre Google, dopotutto) e insisterò su LinkedIn e Slideshare. Il resto avrà solo spiccioli di tempo, per scelta e per necessità. Ovviamente, nel 2012 potrebbero nascere nuovi Social Network (lo spazio probabilmente c'è, come ho già detto in passato) e li valuterò con attenzione. La mia azienda, tuttavia, oggi ha priorità più urgenti a livello di marketing e comunicazione e, come molte altre PMI italiane, ha bisogno di capire bene come può utilizzare questi strumenti, ci vuole tempo e formazione specifica. Ma ricordiamocelo sempre: non si vive di solo "social".

giovedì 15 dicembre 2011

I contenuti regnano, le mode meno


Due notizie, molto diverse tra loro, portano acqua al mulino di chi crea contenuti per il Web. Da una parte, Matt Cutts di Google ha dichiarato che il re dei motori di ricerca vuole dare grande visibilità alla qualità intrinseca del contenuto e non su come è realizzato il codice HTML che lo contiene. In più, ha ufficialmente negato che i siti realizzati senza seguire le logiche SEO siano effettivamente penalizzati (o addirittura estromessi) dalle ricerche di Google. In breve: non esistono trucchi di Search Engine Optimization validi, l'unica preoccupazione che si deve avere è scrivere ottimi contenuti, accessibili, interessanti, con buoni titoli. L'altra bella notizia è invece legata al parere di uno dei più grandi esperti americani di Content Management, Joe Pulizzi: la Content Curation va bene ma è più importante la Content Creation. Quindi, si sposta l'attenzione sulla realizzazione di testi nuovi e non, di fatto, sul miglioramento di quelli già presenti. Questa è la moda del 2012, a quanto pare.

Le due notizie sono molto importanti, perché sottolineano ancora una volta che la qualità dei contenuti fa la differenza. C'è però da dire una cosa, molto chiaramente: viviamo in un mondo colorato di varie tonalità di grigio, non solo di bianco e nero. Questo vale anche per la gestione dei contenuti online. Come nel Giugno del 2010 ero stato un po' scettico sulla priorità da dare alla cura dei testi (il contenuto, per regnare, deve essere per forza qualcosa di curato, di qualità, di interessante), oggi lo sono altrettanto per il ritorno dell'attenzione verso la creazione dei contenuti. Sono due lati della stessa medaglia, se si vede una o l'altra parte dipende dalla moda del momento. Per quanto riguarda Google, le affermazioni di Cutts collidono un po' con l'approccio collaborativo che hanno sempre tenuto con i (bravi) esperti SEO. Avere validi e competenti professionisti (come questi) che consigliano sulle parole chiave da usare e sulle soluzioni tecniche più efficaci, a mio parere, non può fare che bene alla visibilità di un'azienda.

Al di là di queste considerazioni, le due notizie dimostrano come la ricerca di qualità nella realizzazione e gestione dei contenuti sia sempre più importante. E questo non può farmi che piacere, c'è tanto lavoro da fare in questo senso (io lo sto facendo, proprio ora, per la mia azienda). Content is still king. Il re è più vivo che mai, viva il re.

Aggiornamento: a conferma che non c'è alcuna contrapposizione tra "contenutisti" e "seoisti", segnalo due bei post (qui e qui) fatti da esperti SEO sulla questione. In medio stat virtus.

lunedì 12 dicembre 2011

La creatività e la concretezza


Si parla spessissimo di creatività a livello di comunicazione, altrettanto spesso lo si fa con poca cognizione di causa. Si generalizza la potenza e l'utilità di un'idea folgorante, nuova, inedita, senza però andare nel concreto. Raramente, invece, accade di imbattersi in qualcosa di realmente creativo e di grande impatto. Leggendo un post della bravissima Elena Veronesi (una che non scrive mai cose banali, da seguire con attenzione) sugli "schizzi di comunicazione", ho scoperto il sito BootB (Brands Out Of The Box). Si tratta di un progetto di marketplace che vuole mettere insieme le idee di professionisti creativi con le necessità delle aziende a livello di comunicazione. In breve: un impresa crea un brief su quello di cui ha bisogno, lo condivide in questo spazio, vari professionisti propongono i loro progetti e quello che piace di più "vince" il budget. Il crowdsourcing comunicativo, insomma.

Bella idea ma andiamo a vedere nel dettaglio come la spiegano. Il sito, innanzitutto, ha un design favoloso, che trasuda creatività da tutte le parti. Ogni cosa, dalle immagini "disegnate a mano" al font, dall'impostazione dell'home page ai colori, tutto è scelto con grande cognizione di causa. Promettono creatività e la offrono subito, senza indugi. In più, il sito è un vero multilingua: la versione italiana, inglese e spagnola, ossia le tre che posso analizzare, hanno un gergo e un linguaggio del tutto verosimile, molto diretto e decisamente efficace. Volete sapere meglio come funziona? C'è un bel video che lo spiega, a vignette, passo dopo passo. In più, si trovano subito i progetti aperti (i brief), i clienti contenti e i migliori creativi. Insomma, in home page c'è tutto. L'hanno fatto i soliti americani? No, il fondatore è italiano, una bella notizia.

Ovviamente, non è tutto oro quel che è creativo. Alcune mie perplessità le ha già espresse PierLuigi Zarantonello in un post. Di fatto, il livello di consulenza è a progetto, non strategico, e il coltello dalla parte del manico ce l'hanno le aziende, che definiscono i budget senza una controparte e possono scegliere senza magari avere le capacità per farlo. In più, come sa chiunque abbia visto dal vivo una gara tra agenzie di comunicazione, il cliente può disporre di numerose nuove idee in modo praticamente gratuito (potendo poi realizzarle anche autonomamente). Resto convinto che per tante aziende, specialmente medio-piccole, questo tipo di soluzione non vada bene perché manca una figura strategica in grado di aiutarle a crescere davvero (i clienti citati, infatti, sono grandi aziende).

Insomma, il crowdsourcing creativo funziona davvero? Qui e qui potete leggere giudizi molto più autorevoli del mio, io mi limito al mio campo. Al di là di quale sia l'idea che ci sta sotto, il sito di BootB la spiega benissimo con grande impatto visivo verso l'utente. Le scale di Escher, anche se impossibili, catturano la nostra attenzione e ci affascinano, no? Questo portale è un esempio di creatività comunicativa davvero efficace e concreta, con contenuti di grande spessore. Una visita la merita anche solo per questo.

martedì 6 dicembre 2011

Mamma, ho riconosciuto il marchio


Sabato mattina, a casa, stiamo facendo colazione. Mio figlio (3 anni appena compiuti) mi chiede di passargli un pacco, con queste esatte parole: "Papà, mi dai la scatola della Coop?" Io, in quel momento, non ci faccio caso e gliela do. Poi rifletto. Nessuno gli ha nominato il nome del marchio, abbiamo appena preso la scatola dalla cantina (è la prima volta che la vede) e lui, avendo 3 anni, non sa leggere. "Piccolo, come fai a sapere che è della Coop?" chiedo io. "Papà, è scritto qui" e indica il marchio. Sa già distinguere un marchio, senza poter capire cosa c'è scritto. La cosa mi incuriosisce, provo con un altro marchio di una nota azienda che fa prodotti per bambini. "Chicco, papà", mi dice lui, quasi con sufficienza. Scopro, con un certo stupore, l'impatto che i marchi hanno su bambini ancora così piccoli.

Sapevo bene che mettere supereroi o personaggi dei cartoni animati rende più riconoscibili alcuni prodotti e li rende più appetibili di altri (pensiamo all'onnipresente gattina col fiocco rosso della Sanrio). Quelli con i loro eroi preferiti sono percepiti come "più buoni", il che non mi è mai piaciuto ma è un dato di fatto (qui c'è la ricerca della rivista Pediatrics). E diciamocelo, ci cadiamo anche noi adulti, se no i testimonial non esisterebbero. Tuttavia, questa consapevolezza di saper distinguere un marchio nudo e crudo da un altro non la sospettavo. Alcuni vedono questa cosa molto negativamente (un esempio qui), io mi limito a constatare il numero immenso di input che i bambini non solo ricevono ma riescono ad analizzare e gestire con velocità inaspettata. Scopro oggi che è cosa normale per i bambini dai 4 ai 7 anni, il mio ne ha 3 appena compiuti. E ci rifletto su.

Questo conferma, ancora una volta, quanto sia importante gestire la comunicazione verso i bambini, sia da produttori di informazioni che da riceventi. Basta vedere come due ambiti del tutto normali nel rapporto con i bambini, ossia il raccontare storie e lo spiegare le cose attraverso il gioco, siano diventati, oggi, due potenti strumenti di marketing: storytelling e gamification. Questo vuol dire che genitori e bambini, su molte cose, ragionano e/o agiscono in modo più simile di quanto pensiamo (e il neuromarketing, forse, ha un ruolo in tutto questo). Ripeto, non c'è nulla di malvagio in questo contesto, dobbiamo solo essere consapevoli che il ruolo di genitori ci impone di vivere e capire queste dinamiche insieme ai nostri figli. Ripeto, insieme. Ed è una bella notizia. Il mondo evolve velocissimo in questo senso e forse il nostro bimbo ci arriva prima di noi. Dobbiamo insegnare tanto quanto dobbiamo imparare, il gioco funziona così.

Aggiornamento: un bell'articolo di Adweek sul tema dice, tra le altre cose, che un bambino americano di 3 anni riconosce, in media, 100 marchi aziendali.  Sono parecchi. Per sdrammatizzare, guardatevi i video di Adam Ladd, uno su tutti.

(Photo credits: campagna pubblicitaria per far mangiare le carote ai bambini come fossero "cibo spazzatura" http://innovationtrail.org/post/trick-kids-eating-baby-carrots-branding-them-junk-food)

giovedì 1 dicembre 2011

Nella guerra dei biscotti perdono tutti


Non voglio entrare nel merito della polemica che si è accesa tra Barilla e Plasmon, si trova tutto qui. Quello che mi viene da dire è che queste "guerre tra ricchi" servono come le "guerre tra poveri", ossia a nulla. Anzi, perdono tutti. Non mi sono mai piaciute le pubblicità comparative perché ognuno può segnalare i dati e le informazioni che vuole, quelle positive, dando un messaggio fuorviante e non obiettivo. Qualcuno potrebbe obiettare che la comunicazione d'impresa fa esattamente questo: da le notizie positive e non quelle negative. Ma c'è una bella differenza tra il dire che io sono bravo a fare qualcosa (non dicendo che sono scarso a farne un'altra) e che io sono più bravo di un altro solo in certe specifiche cose. Ho sempre pensato che la fiducia bisogna guadagnarsela direttamente con chi ci sta davanti (o chi ci compra, in questo caso), non mettendo in cattiva luce il compagno di banco.

Da compratore di prodotti per la famiglia, faccio alcune semplici considerazioni. Scopro oggi che i Piccolini non sono adatti ai bambini sotto ai tre anni: dove era scritto? Appena arrivo a casa controllo, non lo sapevo. Quello che so è che sulla pagina del sito di Barilla mi spiegano, oggi, che sono "la linea di prodotti pensata per i bambini" e che "piacciono anche ai grandi". Se leggo, come sul comunicato stampa di Barilla, che è "pasta per tutta la famiglia", io includo mio figlio per primo, che li mangia da quando aveva due anni essendo "il piccolino" di casa. E, lo dico chiaro, continuerà a farlo (e anche la sua sorellina, appena avrà qualche dentino), a patto che Barilla non inizi a dirmi che sono io che non ho capito che non erano prodotti adatti a un 2enne. Non metto screenshot del sito, mi fido di Barilla e so che non cambierà le carte in tavola. Io mi fido delle aziende, spero sempre che loro facciano altrettanto visto che sono io a dare loro soldi, e non viceversa.

Altra considerazione: l'attacco diretto di Plasmon (che fa parte di una compagna di comunicazione molto strutturata, con newsletter e giochi a premi) è molto soggettivo e parziale. Io vado al supermercato e non decido tra Plasmon e Macine, al limite li compro tutti e due. Qui ha ragione Barilla, sono prodotti con target diversi. Le domande nascono spontanee: sono solo le Macine ad avere quei valori o anche altri tipi di prodotti Barilla? E quelli di altri produttori? In più, cosa può provocare l'assunzione di quelle sostanze? In definitiva, ho più domande che risposte. Una pubblicità che genera incertezza e dubbi, a mio parere, non è mai una buona idea. Magari Plasmon ha ragione ma non è questo che conta. Le mamme e i papà (anche noi facciamo la spesa o sbaglio, cara Barilla?) vogliono essere sicuri di quello che comprano e di quello che danno ai loro figli. Due colossi del settore alimentare, oggi, ci hanno resi più insicuri. Non ne avevamo bisogno (e abbiamo la memoria lunga).

"Quando i ricchi si fanno la guerra tra loro, sono i poveri a morire." Jean-Paul Sarte

Aggiornamento (13 dicembre 2011): la Barilla metterà delle apposite scritte sulle confezioni incriminate (quindi, nella sostanza, ammette l'errore) mentre la Plasmon è stata costretta, dal giudice, a sospendere la campagna pubblicitaria, definita "ingannevole e denigratoria". Due sconfitti, zero vincitori.