martedì 20 novembre 2012

Il lato oscuro del native advertising

Basta la bottiglia.
Il Giornalaio ha pubblicato ieri un ottimo post che parla dell'evoluzione del rapporto tra comunicazione aziendale e pubblicità alla luce della crisi epocale dell'advertising. Citando il caso del nuovo portale di Coca Cola, che si presenta di fatto come una testata, un hub informativo, più che come un sito aziendale, si approfondiscono le caratteristiche di una delle possibili strade che la comunicazione può prendere in futuro: l'impresa si trasforma da marchio a media. L'argomento è molto interessante, non lo si può esaurire in un solo post, però inizio a rifletterci su.

Di fatto, la comunicazione aziendale e la pubblicità sono sempre state due parti distinte, anche se spesso, nella testa di un'imprenditore, era una differenza non così chiara nel grande calderone del marketing. Da una vita mi batto su quel confine di distinzione: non sono un pubblicitario. Per far capire bene cosa facevo, prendevo l'esempio di un giornale, dove si potevano distinguere bene gli articoli derivati da comunicati stampa (la parte redazionale) e le pagine pubblicitarie. Su quanto le seconde abbiano sempre influito sui primi potremmo discuterne un mese ("ho visto cose..." potrei dire) ma restiamo sulla percezione del lettore, la distinzione c'era. Da una parte c'era un giornalista, dall'altra un'azienda. 

Per carità, c'è sempre stata tutta una fascia grigia, non sono né un romantico né un ingenuo. Le vedo anch'io le pagine pubblicitarie "mimetizzate" da articoli (l'edizione italiana di Wired ne ha molte e fatte molto bene), gli articoli che sembrano advertising (le cosiddette marchette) e il grande e variegato mondo dei pubbliredazionali. Però il modello almeno era chiaro. Ora le grandi aziende sembrano voler passare il Rubicone in forze e si propongono come nuovi "raccontatori di storie". Se a una valutazione preliminare può apparire una gran bella notizia, soprattutto per me che lo storytelling lo faccio per lavoro, i lati più oscuri rimangono quelli più interessanti.

Coca Cola ha come suo primo obiettivo quello di vendere, non di fare informazione. Inutile girarci intorno. Il team di Coca Cola Journey può avere una sua redazione ma rimane un'azienda privata con obiettivi privati. Bene ribadirlo, interessi del tutto legittimi. Discorso speculare vale per le testate: le storie sponsorizzate e i contenuti brandizzati, ossia il cosidetto "native advertising", vengono pubblicati perché qualcuno paga, non per una scelta legata alla qualità intrinseca di quello che viene raccontato. Se la zona grigia aumenta, diventa più difficile capire chi dice cosa e perché. Al New York Times hanno un'opinione su questo:
"It is critically important to us that advertising can be clearly distinguished from editorial and news content by our readers. For that reason, we tend not to accept native advertising”.
Sono pienamente d'accordo. La questione importante non è che il logo diventi molto piccolo o passi in secondo piano: le parole, le immagini e lo stile stesso possono essere simili a "marchi registrati" di un'azienda. La bottiglietta là sopra è un chiaro esempio (vedi qui). La questione vera è chi comunica, il soggetto. Su questo ci deve essere chiarezza. Ho sempre sostenuto che il giornalista avrà un ruolo in futuro ma che ancora non si sa quale sia, una casella vuota. Quello che so è che non potrà essere colmato da un'azienda. Anzi, lo spero.

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