giovedì 28 marzo 2013

Come fare un buon fact checking


Si parla tanto, troppo, di fact checking ultimamente. In realtà, quasi sempre lo si usa solo per fini molto specifici, spesso per confutare una singola affermazione che non resterà comunque nei libri di storia. Spesso poi il problema è legato al "controllore" che non è evidentemente un soggetto super partes (come dovrebbe essere un giornalista, in teoria) ma che tende a elevarsi a giudice imparziale di una questione che gli interessa da vicino, scegliendo accuratamente cosa verificare e cosa no ("cherry picking" dicono gli anglosassoni). Non è facile fare fact checking.

Un bell'esempio di verifica dei fatti diffusi dai mass media ce lo da oggi Paolo Attivissimo, che tutti conoscete. Una premessa: ieri sentivo alla radio una notizia allarmante sul più grande cyber-attacco della storia, "una specie di attacco nucleare" a Internet. Per quanto riguarda la mia esperienza, e non sono un tecnico, non avevo avuto nessun problema, né rallentamenti né problemi di connessione a Internet coi miei cellulari. Bah, mi sono detto, sarò stato fortunato. Oggi leggo l'articolo di Paolo Attivissimo, che essendo esperto in materia e molto tenace, ha fatto qualcosa che teoricamente potevamo fare quasi tutti: ha preso Google e si è messo a cercare conferme, fatti, numeri. Ovviamente, lui sapeva dove andare, dove trovare le fonti più autorevoli, ha usato un metodo e ha consultato svariate fonti, anche quelle che non andavano a supportare direttamente la sua teoria. Alla fine, viene fuori che l'attacco c'è ma che certi paragoni atomici, ad oggi, è meglio lasciarli stare.

In più, cosa da segnalare, mi fa conoscere il "principio di Belzebù" del giornalismo: mai fidarsi di notizie che provengono da una fonte interessata. Utilizzando questo semplice ma utilissimo principio, possiamo smontare anche molti articoli che controllano i fatti, se la parte che giudica ha un conflitto di interessi con la notizia che controlla. Ho detto più volte che il fact checking non è cosa per tutti, ci vuole metodo, esperienza, professionalità e competenza. E un consiglio, diffidate sempre di chi, in questi articoli, dice di voler "trovare la verità". Il fact checking serve per ottenere la verificabilità di una notizia, non la verità. Una notizia verificabile può essere falsa mentre una notizia non verificabile può essere vera. Questo può essere un buon punto di partenza per diventare un buon fact checker.

martedì 26 marzo 2013

Cinque domande prima di iscriversi alle superiori


Due anni e mezzo fa scrissi un post che parlava di come i ragazzi under 13 scelgano prevalentemente i licei, percorso che li obbliga a fare cinque anni di superiori più altri cinque di università, se tutto va bene. I dati di oggi ci dicono che quasi il 50% di loro continua a scegliere questa strada. E non c'è nulla di male in questo, io stesso ho fatto lo scientifico. Quello che non mi piace per niente è che non si dia una corretta informazione: non viene spiegato loro cosa implichino certe scelte, che saranno importanti per il loro futuro. Per cui, visto che la comunicazione verso i ragazzi è un argomento che mi piace, provo a farmi io certe domande, come se avessi 13 anni.

Non ci sono risposte giuste, in questo caso l'importante è farsi le domande. A 13 anni è difficile, perché si vogliono fare tante altre molto più divertenti rispetto a decidere come sarà la propria vita. Ma è bene fare un piccolo sforzo: c'è Internet per cercare, informarsi, giudicare, sfruttatelo a dovere. E coinvolgete i vostri genitori, fate domande anche a loro.

Nel 2020 enti e aziende cercheranno infermieri, chimici e informatici, almeno così dicono le statistiche. Magari sbagliano (anche i numeri sbagliano) ma se vi piacciono certe cose, provate a pensavi con un camice o mentre programmate un software. Il 31,4% dei vostri coetanei sceglie un istituto tecnico, contro il 49% dei liceali: ogni scelta va bene se vi date delle risposte delle quali siete convinti. Spesso sbaglierete, non sarà la strada che seguirete nella vita. Io volevo fare il pilota e l'astronauta, ora scrivo di marketing e comunicazione. Le risposte cambiano nella vita e va benissimo così.

venerdì 22 marzo 2013

Le policy: soluzioni semplici e preventive per problematiche complesse

Che le aziende, specialmente quelle italiane, abbiano bisogno di policy definite nella comunicazione, online come offline, è un mio pallino da sempre (vedi questo post di quasi 3 anni fa e anche sul libro ho citato spesso questo assunto). Tutti devono sapere, in linea generale, cosa sta facendo l'azienda e dove vuole andare per poi poterne parlare, sempre con cognizione di causa. Però "la policy" rimane qualcosa di astratto, di indefinito, quasi filosofico. Questa volta ci viene in aiuto TNT, che pubblica le sue linee guida in modo chiaro e trasparente. Qui sotto ne vedete un estratto, ossia i cosa fare e i cosa non fare.


Alla fine, si può dire, si tratta di semplici logiche di buon senso. Il primo "don't" è sostanzialmente la semplice regola della nonna, copyright di Catepol (Caterina Policaro, ndr) e citata qui. Però sono linee guida scritte, consultabili, omogenee e chiare per tutti. Non è affatto una cosa scontata. Se un dipendente ha un dubbio, va a vedere se una cosa può farla o meno. Questo può rappresentare una soluzione semplice e preventiva a una miriade di problematiche complesse da dover gestire poi. Perché non farne una anche per la propria azienda? Non hanno controindicazioni, tranne il tempo che si impiega a scriverle. Ed è un investimento assolutamente fruttuoso.

mercoledì 20 marzo 2013

Il passaparola online funziona per vendere? Dipende.


Da Coca Cola, non proprio un'azienda qualunque, arriva forse la notizia del giorno a proposito di comunicazione e marketing: il buzz, il "passaparola online" non porta conseguenze significative a livello di vendita nel breve/medio periodo. La frase, detta da un senior manager del marketing della multinazionale americana come Eric Schmidt (un altro Eric Schmidt, sia chiaro), sembrerebbe porre la parola fine a tanti proclami sulla potenza delle conversazioni tra persone in rete in un'ottica di marketing. In realtà, non è proprio così. Io sono da sempre piuttosto critico sull'onnipotenza della rete, spesso siamo noi addetti ai lavori che per convincere i clienti puntiamo sul "nuovo che avanza" e non su quello che andrebbe meglio all'azienda (magari partendo da una brochure o dal sito).

Mi limito quindi a fare alcune considerazioni (come fanno altri), cercando di essere obiettivo:
  • Nella stessa occasione, lo stesso Schmidt dice una cosa molto importante: non è la fine della storia, è solo uno studio fatto su un'azienda particolare con un business particolare, non può essere un caso valido per tutti. Questo ci deve servire di lezione: ogni azienda fa storia a sé, quello che funziona o meno per Coca Cola può darci spunti ma sta a noi capire quanto ci possa essere utile. Partire con facili premesse o finire con facili analisi successive (win or fail) è uno dei grandi errori da evitare.
  • Sempre il manager di Coca Coca sottolinea come loro stiano cercando nuovi strumenti per analizzare e misurare correttamente il buzz e i suoi effetti. Una bella ammissione da parte di una multinazionale da 11,4 miliardi di dollari di fatturato, con un reparto marketing invidiabile per budget e risorse. Altra lezione per tanti: non ci sono modelli predefiniti, dobbiamo sempre cercare di capire meglio come e perché succedono certe cose.
  • Umani e macchine analizzano il sentiment in rete in modo diverso. Nel caso di Coca Cola, quello che le persone dicono che è "positivo", per le macchine al 21% è "negativo". In particolare, i sistemi di analisi automatiche fanno molta fatica a giudicare testi lunghi, come nel caso di blog e di aggiornamenti di Facebook, mentre con quelli corti, come i tweet, lavorano molto meglio. C'è ancora molta strada da fare per le macchine per comprendere bene i contenuti, che rimangono i re della comunicazione.
Come per l'editoria, anche per la comunicazione online stiamo una fase di passaggio. Non essendoci strade certe, a meno di non farci prendere da posizioni ideologiche, l'unica cosa è sperimentare, analizzare e riflettere. Questo vale per Coca Cola e anche per una PMI da 10 dipendenti.

mercoledì 13 marzo 2013

Segnali dal futuro dell'editoria

Tra ieri e oggi ho visto tre notizie che, analizzate insieme, cominciano a dare qualche spunto per capire come sarà l'editoria del futuro prossimo venturo. Le analizzo velocemente, in ordine di "innovatività":
  • I dati ADS si adeguano al presente: i dati sulle diffusioni dei giornali italiani includono (finalmente) anche le edizioni digitali, in modo tale da dare, oltre alle belle cornici di parole, anche i numeri. I risultati sono superiori alle aspettative, non solo le mie. Questo significa che, anche in un Paese come il nostro dove i cittadini leggono poco (il primo quotidiano italiano vende 457mila copie, il primo inglese, The Sun, 3 milioni), le edizioni su tablet riscuotono un buon successo, con 45mila copie digitali a testa per Sole, Corriere e Repubblica. Per carità, c'è ancora molta strada da fare per compensare le perdite della carta, nell'ordine di copie e di euro incassati con la pubblicità, ma sono segnali incoraggianti.

  • Il sito resta centrale: il New York Times ha dato ieri un'anticipazione su come sarà il loro nuovo sito. Pulito, minimale, interattivo e, apparentemente, molto semplice da leggere (sembra un'applicazione per tablet). In più, del tutto aperto ad accogliere i giudizi e le opinioni dei suoi lettori, per instaurare quelle conversazioni di cui parliamo, in teoria, da tempo. Il giornalismo si adegua al mondo che cambia, scende dal piedistallo e si propone in modo più diretto e meno autoreferenziale. Non ho alcun dubbio che il modello del sito del NYT sarà preso ad esempio da decine, o centinaia, di altri quotidiani nel mondo (come ho già scritto, Il Sole 24 Ore ha dimostrato già di essere sulla buona strada). Ma la differenza sta nell'approccio, non nell'Html.
  • Contenuti e immagini, una relazione sempre più speciale: nel modello di vendita e fruizione dell'informazione del prossimo futuro, l'abbinamento tra testo e immagini (video e foto) sarà fondamentale. Perché i contenuti dovranno essere complementari tra loro e offrire ai lettori una facilità di lettura che oggi non hanno. Un esempio potrebbe essere quello di Icon Times, citato da Pier Luca Santoro, un nuovo modo di aggregare le notizie per abbinare velocità e semplicità di scelta delle notizie. Ma, ripeto, già Aldo Manuzio (e Luisa Carrada) ci aveva spiegato come testi e immagini debbano compenetrarsi tra loro, ben prima di Internet e tablet. Tornare al passato per scoprire il futuro, una lezione molto utile anche per il giornalismo. 
Insomma, tre bei segnali su cui riflettere. Con una conferma: al di là di mode e nuovo che avanza, il sito continua a essere centrale per ogni progetto di comunicazione, perché è un punto di riferimento chiaro, continuo nel tempo e controllato da chi lo fa. Non sono tre vantaggi da poco.

martedì 12 marzo 2013

Gli errori di gioventù del neuromarketing

Ho parlato più volte di neuromarketing, ossia quella disciplina che analizza come i messaggi che ci arrivano dall'esterno, spontanei o creati ad hoc per la comunicazione, influenzano il nostro cervello e il nostro processo decisionale. Certe volte ne ho parlato bene, altre meno. Il tema è sicuramente affascinante ma ritengo che, come sempre, serva mantenere un approccio realistico e distaccato, come su tutti i vari temi legati alla comunicazione. Non esistono soluzioni magiche, il neuromarketing non fa eccezione. Si tratta di una disciplina ancora giovane (è balzata agni onori delle cronache nel 2009) che, proprio per questo motivo, paga i tradizionali errori di gioventù. I media ci sono andati a nozze con questi temi ma, ripeto, più per dare notizie di colore che qualcosa con un fondamento scientifico solido.

Oggi molti scrivono che il neuromarketing ha deluso le attese, perché non ha dimostrato l'esistenza del famoso "bottone d'acquisto" nel nostro cervello. Io dico che forse c'eravamo fatti troppi viaggi mentali, tutto qui. Sappiamo ancora relativamente poco di come operano i nostri neuroni: basta un po' di logica e buon senso per capire che se un'area si "accende" non vuol dire che siamo "appagati" o "ansiosi" al 100%. I fattori che incidono sono molteplici e non sempre univoci. Certo, escono comunque notizie interessantise colossi ci credono hanno le loro buone ragioni (ma leggete anche chi ha scritto l'articolo, il nome del suo sito e il titolo del suo libro). L'arte della persuasione esiste da millenni e noi dobbiamo avere la pazienza, e l'onestà intellettuale, di aspettare studi certi che ci facciano capire meglio come ragioniamo, come decidiamo, come valutiamo. Capire meglio, non tutto.

In attesa di avere conferme da professionisti molto più preparati di me in questo campo, mi limito a dare un consiglio basato sull'esperienza: puntate sulla creatività, sull'entusiasmo e sulla passione per quello che fate. Queste sono armi magiche in grado di generare empatia in coloro che ci guardano. Non ci sono controindicazioni e se i clienti ci mettono un po' più tempo per decidere in nostro favore, dobbiamo avere pazienza. La mente umana rimarrà misteriosa ancora per un po'.

venerdì 8 marzo 2013

L'inutilità del disclaimer delle mail

Ogni tanto qualcuno mi chiede cosa ne penso dei disclaimer nelle mail, quelle 6-7 righe che stanno sotto alla firma per dire qualcosa tipo "se non sei il ricevente giusto di questa comunicazione, informaci e cancella la missiva perché lo prevede la Legge xyz". Sul tema in sé, ha già detto tutto Luca Sartoni in questo post. Per la questione legale, non è il mio mestiere e quindi rimando a questo post (il cui riassunto è "lasciamo stare la Legge e usiamo logica e buon senso"). Dal punto di vista della comunicazione, solo tre considerazioni:
  • Non offre alcun valore aggiunto, anzi: la sostanza di quei testi è dire "attenzione che ti sto dando informazioni riservate", il che è già incluso nel criterio di riservatezza che vincola cliente e fornitore. Se non c'è contratto firmato, il mittente deve contare sul buon senso e sulla professionalità del ricevente, su un rapporto di fiducia da costruire subito. Cosa aggiunge il discaimer a tutto ciò? Nulla. Anzi, il destinatario può pensare che la sua professionalità e riservatezza siano messe in dubbio da una mail. Anzi, da un testo di sette righe che si include nelle mail a prescindere dal destinatario. Il messaggio che passa è: non mi fido completamente di te, chiunque tu sia.
  • Un messaggio prioritario che diventa sostanzialmente secondario: il disclaimer sta sotto a tutto il resto della mail, quindi non è pensato per essere una delle cose più importanti del messaggio. Nei toni, invece, citando norme e procedure, sembra la cosa prioritaria. Questo è illogico e, giustamente, il destinatario spesso non si accorge neanche se il disclaimer c'è o meno. Il messaggio che passa è: ti dico cose che ritengo importanti ma quasi te le nascondo, le uso solo se mi servono.
  • Se si sbaglia, bisogna assumersene le responsabilità: io possono sbagliare a mandare una mail e dico, preventivamente, a cui la riceve che la responsabilità è sua, che deve avvisarmi e cancellare immediatamente la comunicazione. Logico, no? Io, ricevente, penso: davvero professionali e affidabili questi, non vedo l'ora di collaborare con loro. Il messaggio che passa è: non usare il buon senso per avvisarmi che ho sbagliato, lo devi fare perché è previsto dalla Legge e perché, in caso contrario, ne paghi le conseguenze.
Per chiudere velocemente il discorso, non obbligo nessuno a mettere il disclaimer o a non metterlo. Quello che dico è che in qualsiasi comunicazione ci deve essere logica e opportunità nei contenuti, basata su ogni destinatario specifico. Il lettore della mia mail è la mia priorità. Se devo avvisarlo di vincoli importanti sulle informazioni che gli do dal punto di vista legale, glielo dico subito e chiaramente. Mica sotto a tutto con un testo copiato-e-incollato, no?

mercoledì 6 marzo 2013

Si può essere innovativi anche mandando una mail


Ho sempre pensato che la e-mail (citata come mail d'ora in poi) sia un canale di comunicazione molto sottovalutato e uno strumento di condivisione (e di gestione delle informazioni) molto sopravvalutato (condivido in pieno le tesi di Giacomo Mason). Nei progetti di marketing, ho sempre preso in considerazione la possibilità di realizzare newsletter utili allo scopo che mi ero prefissato. Non sempre poi questo ha portato a campagne di direct marketing, perché non esistono soluzioni valide sempre e comunque, però è un'opzione che va considerata quasi sempre. La mail, in una valutazione tra costi e benefici, è una soluzione molto vantaggiosa. Al di là delle mode, che vanno e vengono, è uno strumento che usiamo quotidianamente da oltre 20 anni, grazie anche alla comodità di utilizzo odierno attraverso gli smartphone. Io stesso ho impostato ultimamente alcune campagne di direct marketing che, nel medio periodo, hanno portato buoni risultati.

Oggi ho letto questo bel post, che sfata alcuni miti legati all'email marketing e conferma altre tesi. Aggiungo alcune mie considerazioni basate sull'esperienza:
  • O sapete usare bene l'Html o affidatevi a una piattaforma. Se avete competenze tecniche, potete creare qualsiasi template vogliate, in piena libertà. Se non le avete, non affidatevi al primo in azienda che qualche competenza ("lui ha un blog!") ma utilizzate le ottime piattaforme già pronte (e gratuite per numeri di invii sufficientemente bassi) come Mailchimp. Non sapete come usarlo? Leggete quello che scrive Alessandra Farabegoli, basta e avanza.
  • Usate "parole vere" nell'oggetto della e-mail. Non importa se scrivete l'oggetto lungo o corto, conta che quel che è scritto sia pensato e voluto. La ricerca citata sopra dice di non usare la parola "newsletter", opinione che condivido. Non dico altro su cosa scrivere, basta che ci sia riflessione in merito e non che sia l'ultima cosa a cui si pensa. Quello che la riceverà giudica velocemente: prima dite perché lo disturbate, prima saprete se la cosa gli interessa.
  • Non fidatevi delle liste già pronte. Gestire una mailing list e un database, come sappiamo, è una cosa da fare ogni giorno, con costanza, spendendo un sacco di tempo nell'immissione e, soprattutto, nell'aggiornamento delle informazioni. Questa cosa paga. Nel tempo, affinerete i contatti e le relazioni disponendo di dati affidabili. Tutte cose che si riveleranno decisive. Spendere un po' di euro per avere delle liste che saranno già vecchie quando le riceverete e vi costringeranno a ripartire quasi da zero non ha molto senso, voi cosa dite?
  • La mail è già pronta? Fatela rileggere un'ultima volta a qualcun altro. I refusi e gli errori ortografici sono sempre in agguato e possono essere devastanti per la credibilità di una newsletter. Dopo un po' di volte che il nostro cervello legge un testo, gli errori non li vede letteralmente più: si autoassolve e voi pensate di essere al sicuro. Non è così. Prendete un vostro collaboratore e chiedetegli di leggere il testo, potrebbe salvarvi la campagna: lo stesso errore mandato a 2.000 persone è qualcosa da evitare. Prima o poi uno sbaglio lo farete, sta nell'ordine delle cose, ma meglio ridurre i rischi al massimo.
  • La mail si legge anche sul cellulare. Avete impostato un ottimo template, riletto il testo, scritto un oggetto di sicuro impatto e controllato tutta la mailing list. Pronti all'invio? Un attimo ancora. Fate uno, due, tre test. Da Gmail a Outlook, cercate di provare i principali clienti di posta. E controllate come si vede dal vostro smartphone: alla fine di quest'anno, il 50% delle newsletter sarà aperta da device mobili, tablet compresi. Dato non trascurabile.
Questi sono solo alcuni consigli, il tema è vasto e variegato. L'unica regola generale è che non esiste una regola generale. Provare, testare, sperimentare, evolvere, questi sono i verbi che contano. Perché si può essere innovativi anche mandando una mail.

(Photo credits: Flickr, Christopher S. Penn)

venerdì 1 marzo 2013

Credibilità e titoloni

Un esempio della crisi d'identità della stampa, oggi. Il Corriere della sera titola, come prima notizia sul suo portale: "Renzi: sono pronto a fare il premier". Titolo forte, roboante, d'effetto: qui l'articolo. Il problema è che, io come tanti altri, abbiamo il brutto vizio di leggere anche l'articolo, non solo il titolone. Andando oltre al secondo paragrafo, come dice una vecchia regola. Uno su tutti, Enrico Sola, @suzukimaruti su Twitter, commenta la cosa.
Leggiamo l'articolo appunto. Si scopre che Renzi dice, testualmente:
Vedo che alcuni giornalisti scrivono che io potrei fare il premier, che potrei fare il segretario. Tutte illazioni. E cavolate. La realtà dei fatti è questa: io non mi farò mai cooptare dal partito. Manco morto! Nessuno dei vertici potrà mai dire: "Il nostro prossimo candidato premier sarà Renzi". Perché a quel punto io dico: no, grazie. Altra cosa è se il Partito democratico va alle consultazioni da Giorgio Napolitano con una rosa dei nomi. Cioè, senza dire che la richiesta è quella di Bersani secca. 
Cioè il titolo non ci azzecca nulla con l'articolo? Esattamente. A una lettura più attenta, si capisce bene che non si tratta di un'intervista a Renzi ma di un collage di dichiarazioni, dove quindi la libertà della giornalista che l'ha scritto è molto, molto ampia (cherry picking e dintorni, insomma). Dopo pochi minuti, arriva la smentita su Twitter del portavoce del sindaco di Firenze, Marco Agnoletti, la vedete qui sotto.
Non penso necessitino commenti ulteriori. Parliamo di Corriere della sera, primo giornale italiano per numero di copie vendute (in crollo verticale, comunque). La mia l'ho già detta: per i media in generale il futuro si gioca sulla credibilità. Vale anche per i titoli, se non fosse chiaro.