giovedì 30 maggio 2013

Una storia di loghi e di caffè a New York


Per gli americani, si sa, la comunicazione, il marketing e il brand sono cose serissime. Non è che queste cose le abbiano inventate loro (come sottolineo in questo post e ampiamente nel libro Promuoversi Mediante Internet) ma bisogna dare loro atto che le hanno strutturate e organizzate a dovere in quest'ultimo secolo. Si potrebbe dire che hanno fatto "Marketing marketing", ma sto andando fuori tema. Insomma, la comunicazione è una cosa talmente seria che va in prima pagina sul New York Times una banale, ma non troppo, questione di logo.

La faccio breve: avete presente il famoso slogan/marchio "I ♥ NY" con il cuore rosso di Milton Glazer? Una piccola catena di negozi di caffè della città ne aveva preso spunto per farne uno suo, mettendo una tazzina da caffè al posto del cuore. Idea nata da un tatuaggio fatto dal proprietario sulla sua mano nel 2009. Bene, il Dipartimento per lo sviluppo economico di New York ha reagito, mandando una lettera legata alla violazione del trademark e intimando al proprietario di toglierlo dai negozi. A malincuore, i proprietari hanno deciso di ascoltare la richiesta: il loro blog ora è così. Non è stato sufficiente: l'avvocato dell'agenzia deputata alla protezione di "I ♥ NY" (che pare abbia molto lavoro in questo senso in questi anni) ha chiesto loro di pagare una penale sui proventi avuti da questa violazione oppure acquisire i diritti di utilizzo del logo ufficiale (cioè milioni di dollari).

Il gran finale? Ancora non è scritto ma i proprietari della catena hanno deciso di cambiare logo, pur sottolineando di non essere convinti di infrangere la legge. Cosa ne penso io? Che probabilmente il dipartimento di NY ha esagerato, in fondo il proprietario promuoveva il suo caffè sottolineando, allo stesso tempo, l'amore per la sua città. Tuttavia, dimostra quanto attenti siano a queste cose, a una corretta comunicazione, alla tutela dei loro marchi, che non sono affatto cose negative. Certo, dal post si capisce bene quanto mi piaccia la reazione automatica di un avvocato su questi temi, io sono sempre per le soluzioni diplomatiche e in grado di portare benefici a entrambi, non solo a uno. Certo, sono in prima pagina del NY Times, non è poi così male. Io andrei da loro a prendere un caffè e a vedere quel tatuaggio se fossi lì. E voi?

Un ultimo particolare, non secondario. L'articolo prevede una correzione, segnalata in fondo, una rettifica di pochissimo conto: il tatuaggio è successivo all'apertura del primo bar della catena. Il NY Times, il più autorevole quotidiano del pianeta, lo fa di prassi. Io amo il NYT (lo dico in italiano e non prendo spunto da altri loghi, capirete anche voi il perché).

(Photo Credits: According2G e Banksy)

martedì 28 maggio 2013

I minori sui media, social e non: iniziamo a rifletterci su


Leggo oggi un bel post di Massimo Melica sulla sempre troppo poco trattata relazione tra minori e giornalismo/comunicazione. Come gestire correttamente una notizia, di quelle brutte della cronaca ma non solo, che riguarda un minore? I giornalisti hanno regole piuttosto precise, che talvolta non rispettano ma che ci sono e sono molto chiare (essendo giornalista, le ho studiate). Consiglio a tutti di leggersi la Carta di Treviso, un manifesto di rara sensibilità che sottolinea non solo la tutela giuridica degli under 18 ma anche le responsabilità che si assume il maggiorenne giornalista che ne scrive e li fotografa. E c'è di più. Viene tutelato il principio di "difendere l'identità, la personalità e i diritti dei minorenni vittime o colpevoli di reati, o comunque coinvolti in situazioni che potrebbero comprometterne l'armonioso sviluppo psichico".

La Carta di Treviso è del 1990, è stata successivamente rinnovata e rivista nel 1995 e nel 2006. Per adeguarla alle nuove necessità, soprattutto in termini di strumenti di comunicazione, c'è stata un'attività di promozione della stessa nel 2012 ma, come appare subito evidente, c'è un grosso limite: è riservata ai "media" tradizionali. Era il 1990 e Tim Berners-Lee avrebbe definito il protocollo HTTP, il cuore di Internet, solo un anno dopo. Ora è evidentemente inadeguata a gestire il panorama mediatico attuale, il tempo passa per tutti, anche per le buone cose. Come dimostra anche il caso citato da Massimo Melica: c'era fretta di pubblicare la notizia, si è lasciata la foto di un amico (forse un minore) che non c'entra nulla col fatto. Una scelta infelice: io, lettore, avevo intuito che era il fidanzato presunto colpevole. Non una cosa da poco se si vuole tutelare l'armonioso sviluppo del ragazzo ritratto.

Il giornalista però si pone il problema, sa le proprie responsabilità, può spiegare le motivazioni (come fa a Melica) ed è già un atto importante. Se c'ero io col mio smartphone e i miei, diciamo, 10mila follower su Twitter (ne ho 1/25, per la cronaca), mi sarei fatto dei problemi a fotografare la scena e a condividerla? E se c'erano dei bambini? E se avessi legato alle immagini giudizi affrettati e non verificati (a proposito dei giudizi sommari 2.0, leggete qui)? Il problema non è piccolo: ognuno di noi oggi è produttore di contenuti e le responsabilità sul web sono difficili da attribuire e tutelare. Lungi da me pensare alle censure ma, lo voglio sottolineare bene, la Legge vale anche su Internet. Per questo, è bene iniziare a porsi il problema di gestire le immagini online di qualcuno. Iniziando da quelle dei nostri figli, ma questo sarà per il prossimo post.

(Photo credits: l'immagine, famosissima, è di Anne Geddes, modificata da me)

mercoledì 22 maggio 2013

Il caso Nutella e tre lezioni sul non aver paura


Scopro solo ora, con notevole ritardo, il caso di Sara Rosso (che ho personalmente conosciuto al KnowCamp di due anni fa), del World Nutella Day e dell'inspiegabile reazione della Ferrero a un'iniziativa che portava solo benefici all'azienda tranne per il fatto che non era un'iniziativa gestita dall'azienda stessa. La storia la spiega tutta e bene un altro amico, Sean Carlos, in questo post, io la riassumo velocemente: Sara organizza dal 2007 il World Nutella Day per celebrare un prodotto che ama, come altri milioni di esseri umani nel mondo, e qualche anno dopo la società produttrice le intima di oscurare blog, sito e presenza sui social media per tutelare la sua immagine, non essendo lei autorizzata a promuovere quel marchio ufficialmente. Dopo una forte reazione dei fan dell'iniziativa, la Ferrero capisce l'errore e fa marcia indietro, ringraziando allo stesso tempo Sara per la sua intraprendenza e la sua passione per la Nutella.

Tre piccole lezioni da questa storia a lieto fine:

  • Non aver paura di comunicare le proprie passioni. In questo caso si vede come Sara abbia passato delle brutte giornate dopo aver ricevuto la lettera degli avvocati della Ferrero ma, non avendo fatto niente di male, ha ricevuto il supporto di un sacco di persone che condividono la sua passione e che magari non la conoscono neanche. La Rete offre queste possibilità e non è poco.
  • Non aver paura di ammettere un errore. La Ferrero ha dimostrato di essere un'azienda seria. Ha fatto un errore, se ne è resa conto e ha fatto una veloce e decisa marcia indietro. Una "routine brand defence", come la definiscono loro su Facebook, non è mai una buona idea. Ogni caso fa storia a sé, le procedure automatiche arrivano solo fino a un certo punto poi deve entrare in gioco il team di esseri umani che ne cura la comunicazione. La Ferrero lo ammette (pur senza scuse dirette a Sara, sottolinea Maurizio Pesce su Wired) ed è un'altra buona notizia.
  • Non avere paura della Rete. Senza Internet, io di Sara Rosso e di Sean Carlos probabilmente non saprei nulla, così come di altri altri bravissimi professionisti che vivono e lavorano in Italia. In più, Sara e Sean sono americani ma vivono da noi e sono contentissimi di questo. In tre righe ho provato a sfatare qualche luogo comune tanto di moda ora. Piccolo contributo, lo so, ma sono piuttosto insistente.
Stamattina mi sono mangiato una brioche con la Nutella, senza sapere nulla di questi accadimenti. Domani lo rifarò, con una consapevolezza e un sorriso in più.

(Photo Credits: Paperblog)

lunedì 13 maggio 2013

Poca chiarezza sul prezzo benzina? Riparti e non torni più

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Immaginate di essere per strada, in auto, e vedete un distributore di un marchio molto conosciuto. Il display sotto il logo segnala un prezzo molto conveniente per il self service. Vi fermate, prendete la pompa e il vostro distributore segnala un costo diverso, più alto di circa 9 centesimi al litro. Ma come? Riguardate il display visibile dalla strada e il prezzo è quello che avevate visto. Istintivamente, magari, vi viene da fotografare i due prezzi con il telefono, non sapete bene per farne cosa. In quel momento arriva il gestore, a muso duro. Ecco quello che è successo a me.

Il gestore mi chiede cosa sto facendo e "chi è lei per fare questo". Gli chiedo semplicemente perché i due prezzi sono diversi. Risposta: se lei fa self service e paga nella colonnina automatica vicina al distributore paga il prezzo basso; se lei fa self service e viene a pagare da noi in ufficio, paga il prezzo alto. Io: al di là che non capisco questa differenza di costo, come capisco la differenza di modalità? Dove sta scritta 'sta cosa? La sua risposta è immediata: è spiegata in due cartelli a lato della pompa (che io non avevo notato e che, in realtà, chiariscono molto poco). Ultima mia domanda: come mai nel display fuori non ci sono i due prezzi, così un automobilista capisce subito l'alternativa? Risposta: eh, decisione dell'azienda. Eh, dico io.

La comunicazione di un'impresa non è solo in grandi campagne di comunicazione, è in piccole scelte di enorme importanza, quelle che devono far capire a una persona normale se la scelta che sta facendo è conveniente o meno (Gianluca Diegoli ci ha fatto una rubrica su queste cose). Questa soluzione, solo il prezzo più basso fuori dal distributore, è ingannevole e priva di rispetto nei confronti di chi paga. Sei tu azienda che devi farmi capire a quanto vendi il tuo prodotto in modo chiaro, non io che devo perdere 10 minuti a leggere cartelli vicino a una pompa e non capirci poi molto. Sia chiaro, il gestore del distributore ha fatto in pieno il suo lavoro: ha tutelato l'azienda per cui lavora e mi ha dato, seppur a muso duro (ma con educazione), le informazioni che mi servivano per capire le differenza di prezzo. Risultato finale? Stretta di mano sincera tra due persone e decisione da parte mia di non fare benzina, mai più, in quella catena.

Lo so, sono un ingenuo, fanno tutte così, direte voi. No, non è vero. Un piccolo distributore vicino a casa mia, uno dei tanti, ha due prezzi, uno per benzina e uno per diesel. Chiari, semplici, intuitivi. C'è sempre la fila, questo è il problema. Per me questo problema sarà molto meno rilevante: accendo la radio, aspetto e i miei 50 euro non li do al marchio molto conosciuto. La sincerità paga, come dico da tempo

martedì 7 maggio 2013

Come far andare bene un evento? Andando oltre il progetto

Noi addetti ai lavori del settore marketing certe volte sopravvalutiamo il potere del "progetto". Un corposo documento in Word o una presentazione da decine di slide, infarcita di bellissimi capitoli divisi per strategia, messaggi, target e altre cose rispettabilissime, assume connotati quasi sacri. Tutto è lì, consultabile, controllato, valutato. Questo è assolutamente giusto, per carità, spesso il problema è l'esatto opposto, ossia l'improvvisazione creativa non troppo organizzata. Ma l'esperienza sul campo, quella passata da clienti nelle mie ultime due settimane, mi ha fatto riflettere molto. 

Avevamo a disposizione progetti definiti, tempistiche approvate, obiettivi misurabili e un sacco di altre cose per gestire undici eventi. Un po' come i generali che si trovano con le cartine sui tavoli e le loro divisioni che si spostano con bellissime e ordinatissime bandierine. Però la battaglia sul campo, tanto per tornare ai concetti militari tanto cari al marketing (obiettivi, strategia, etc.), è un'altra cosa. Spesso si vincono con l'improvvisazione di un capitano sporco di fango che ha la piena fiducia dei suoi soldati, non con le strategie dei generali con tante stelle sulla divisa immacolata ma lontani, laggiù, nelle retrovie. Negli undici eventi gestiti in queste ultime due settimane ho notato come, in un'organizzazione generale comunque definita, hanno contato tanti aspetti non misurabili. L'empatia con il tuo riferimento diretto, la disponibilità a fare qualcosa che non era compito tuo, il darsi una mano ora dopo ora dimenticandosi di essere "clienti" e "fornitori" (parola che odio, sappiatelo) ma una squadra.

Il semplice stare ad ascoltare il cliente, capendo dove sono le sue principali preoccupazioni (soggettive) oltre che i problemi (oggettivi) è stato un valore aggiunto più che tangibile. Ho scoperto che tanti altri attori presenti sul mercato non hanno questo tipo di atteggiamento, non sono per nulla flessibili, si basano rigidamente sui piani previsti dal principio. Non ascoltano il cliente. Ritengo invece che il primo obiettivo sia quello di mettersi davvero nei suoi panni, e certe volte è durissima lo so, e fargli capire che siamo sulla stessa barca. Magari solo per quei due giorni ma quelli contano davvero.

Vedere il presidente di un'azienda scendere dal palco e, come prima cosa, venire a stringervi la mano per farvi i complimenti (e poi brindare insieme) è un'esperienza non pianificabile. Non è solo un evento andato bene perché progettato e organizzato bene, è qualcosa che è andato oltre. Vuol dire che ha notato impegno, passione, disponibilità, comprensione e competenza, tutte cose che un documento o una presentazione non riescono a trasmettere. Talvolta basta un sorriso tranquillizzante e una stampante rimessa a posto al volo quando non era compito tuo. Le battaglie si vincono anche così.