martedì 25 novembre 2014

Repetita iuvant?


Ho appena finito di leggere un libro che parla di relazioni, di media digitali, di conversazioni. Si tratta di un'autrice davvero brava, che scrive come pochi, raramente banale. Eppure, pur formalmente perfetto, l'ho trovato privo di anima, di scintilla, di curiosità. Era come leggere una serie concatenata molto bene di pensieri (suoi) già letti, già scritti, già emersi. Il fatto è che quando le aspettative sono alte, come in questo caso, penso sia facile che accada. Ma non è questo il punto. Mi sono rivisto in modo chiaro in quel libro: da tempo, forse troppo, io e altri stiamo girando intorno agli stessi concetti, alle stesse (false) novità, alle stesse analisi. Lo stesso disco nel quale rimescoliamo solo le tracce. Quando guardiamo lo specchio, e non il numero di amici o follower, non vediamo niente di nuovo.

Internet non è più una novità da molto tempo, Facebook ha dieci (ripetiamo, dieci) anni, Twitter otto. Eppure siamo sempre lì a dire che le aziende non capiscono la rivoluzione che scorre sotto i loro piedi, che non fanno relazioni in modo giusto, che non scrivono contenuti interessanti. Lo storytelling? Ne leggo 10 al giorno di titoli di post sullo storytelling e non c'è nessuno di questi che mi dica qualcosa di nuovo. Questo è anche il motivo per cui questo blog non è più aggiornato due volte a settimana ma una al mese: qualdo leggo di un tema che mi ispira, faccio una ricerca e trovo un post già scritto, più bello, più interessante, più appassionato di quello che mi accingo a scrivere. Già all'interno di questo blog. E questo mi deprime un po'.

Io continuo a chiedermi come mai non esista ancora un social network aziendale che permetta alle aziende di trovare partner, clienti, rivenditori, fornitori senza ricorrere alle ricerche di Google. Possibile che se cerco un vecchio amico lo trovo in due secondi su Facebook o LinkedIn mentre se cerco un grafico devo andare a ripescare un vecchio biglietto da visita, chiedere a un collega o usare un motore di ricerca? Dai, non venitemi a dire che il grafico, lo stampatore o altre figure così le cercate su Facebook, non vi credo. Ed ecco, appare la scintilla, di queste cose ho scritto già e più volte.

I mercati sono conversazioni, si sa. Ma il Cluetrain Manifesto è del 1999. Sarebbe ora di aggiornarle, quelle conversazioni.

venerdì 24 ottobre 2014

Il terrorismo della cioccolata

Leggo oggi la notizia che un'azienda belga che produce e vende cioccolato (ripeto, cioccolato) ha deciso di cambiare la propria denominazione che usa dal 1923. Come si chiama? ISIS Chocolates. Come capiranno tutti, il motivo è legato all'assonanza con un'organizzazione islamica diventata molto famosa nei media negli ultimi tempi. Al di là del fatto che spero vivamente sia una bufala (non ho avuto tempo di controllare ma lo farò e rettificherò in caso, da buon amante del fact checking), resta l'idea che il terrorismo ci possa condizionare in molti modi anche se non dovrebbe.

Come può pensare che una persona media possa farsi condizionare dall'acquisto di una barretta di cioccolata se questa si chiama come un'organizzazione islamica che controlla un territorio tra Iraq e Siria? E se domani nasce l'Islamic Brave Movement - IBM dobbiamo porci un problema di acquisto di un server? Ripeto, cambiare la denominazione di un'azienda quasi centenaria per motivazioni come queste la ritengo, oltre che un'idea poco strutturata, un danno di immagine non da poco. C'è da fare un rebranding totale con queste motivazioni? No, semplicemente.

Business is business, amici belgi. Tenete duro, tenete il nome e vedrete che festeggerete i 100 anni senza più patemi tra qualche anno.

(Photo credits: ISIS Chocolates)

mercoledì 30 luglio 2014

Verso la seconda pagina di Google e oltre


Un vecchio modo di dire usato da chi si occupa di Internet è che la seconda pagina di Google "è il posto migliore dove nascondere un cadavere" perché nessuno andrà mai a vederla (un esempio su milioni è qui). Il mito dei primi risultati del più famoso motore di ricerca del mondo, anche se ormai è riduttivo descriverlo così, è ancora splendente e intoccabile, ci sono decine di post a confermarlo. Tuttavia, come sempre, anche i miti hanno i loro limiti. "La psicanalisi è un mito tenuto vivo dall'industria dei divani" diceva Woody Allen. E, prendendola con ironia ma non troppo, si potrebbe dire che la prima pagina di Google è un mito tenuto vivo dall'industria del Web.

Se ci si pensa un attimo, questo approccio conviene a tutti. Un "win-win" perfetto. A chi fa business sulla ricerca (Google ma non solo) promuove il mito perché li si concentrano i maggiori ricavi dell'advertising (vedi un Tagliaerbe d'annata, un post del 2009 trovato al secondo posto della mia ricerca "come fa i soldi Google", e questo, più recente). A chi con Internet e dintorni ci fa il fatturato, non solo in termini di SEO, conviene perché fa acquisire credibilità e importanza a tutta una serie di servizi online che offrono alle aziende. Alle aziende stesse, che pagano per essere lì, ai primi posti al sole, come ai bei vecchi tempi dei media planning su quotidiani e settimanali. Un complotto, insomma? No, ovviamente, solo un modello di business che funziona alla perfezione.

Lungi da me dal voler smentire il mito, che ha basi solidissime. Ma tanto dipende anche dal come si usa, e perché, un motore di ricerca. Se io sto cercando informazioni rare, quasi nascoste, come numeri di telefono, e-mail o nominativi di decision maker aziendali, difficilmente le troverò nella prima pagina. Perché sono dati non comuni, poco linkati, magari inseriti online una sola volta, "tanto chi vuoi che li trovi". Sono informazioni che fanno la differenza tra una mail a vuoto e un'opportunità di business. In più, diamo per scontato che i dati più rilevanti siano presenti su siti costruiti come si deve, gestiti da gente che sa come ottimizzare contenuti e parole chiave, che siano posti ideali da trovare. Non è così, specialmente nel B2B.

Nella pagina 5 o 6 di Google si trovano miniere di informazioni utili per il business. Se vi dicessi che il 90% degli utenti guarda anche la seconda pagina di Google, e non alla ricerca di cadaveri, ci credereste? Una ricerca di SurveyMonkey dice esattamente questo. Il mito resiste ma qualche riflessione ulteriore male non fa.

venerdì 27 giugno 2014

Si fa presto a dire "geniale!"

Il morso di Suarez a Chiellini durante i mondiali brasiliani è stato, oltre che una brutta pagina di sport, un formidabile incentivo per proporre svariate iniziative di marketing e comunicazione. I Social Media, per ora, sono stati gli assoluti protagonisti, per ragioni molto semplici da comprendere in termini di velocità di creazione e pubblicazione. Ha iniziato McDonald's Uruguay, seguita a ruota da produttori di gomme da masticare, catene di ristoranti e tanto altro (vedi qui). Insomma, un connubio ideale tra sport e food con una manciata di ironia a condire il tutto. Per quanto riguarda l'Italia, abbiamo due illustri esempi (vedi qui e qui) e quella di Barilla stravince: immagine elegante, ironia deliziosa e un claim, "mordi e fuggi", perfetto.
C'è un ma. Si fa presto a dire che una campagna di marketing è "geniale", se andate su Twitter (o su Facebook) ne trovate a centinaia di idee "geniali", il termine è entrato nella lingua dei social network e non da oggi. Poi, insomma, è una parola di 7 battute ("geni" addirittura di 4, fantastica per un retweet espresso) che vuol dire tantissimo in un mondo "social" in cui pensiero e scrittura vanno veloci, spesso anche troppo. Il problema è che le campagne di marketing, oltre alle idee geniali, alla creatività e alle capacità di padroneggiare i mezzi, devono avere degli obiettivi, concreti e misurabili. Come abbiamo già visto, non sempre un'idea che sembra geniale poi porta a quei risultati concreti che ci si aspetterebbe: Coca Cola e le sue "geniali" lattine personalizzate in Italia non hanno portato a un aumento delle vendite. Certo, questo non è l'unico parametro per analizzare il successo di una campagna di marketing (che non fa miracoli, mai e repetita iuvant) ma è uno dei fattori, e neanche uno secondario.

Queste campagne su morsi e "mangiare italiano" portano benefici a livello di posizionamento sul mercato:
  • Fanno testare con mano la creatività delle aziende e delle persone che vi lavorano in modo diretto e competitivo (tante idee, solo alcune vincono in termini di numero di like, impressions e retweet).
  • Fanno aumentare la visibilità del marchio e della sua percezione in modo positivo (un "però, bravi questi di McDonald's!" non è mica poco per un'azienda abituata a essere più criticata che adulata).
  • Fanno vedere come le aziende interagiscono col mondo, sanno cosa succede fuori, si adattano velocemente a notizie di cronaca (pensiamo anche alle pubblicità storiche di un noto gestore di voli low cost).  
Oltre a questo, portano anche benefici in termini di vendite? Stiamo a vedere. Si tratta di un bel test, mondiali di calcio e social media marketing insieme. Si sa, quando il gioco si fa duro, i geni cominciano a giocare. Vediamo se vale anche per vendere.

mercoledì 4 giugno 2014

A lezione di marketing da Lady Gaga


Negli ultimi giorni ha fatto scalpore la notizia di Apple che si è comprata Beats, la creatura di Dr. Dre specializzata nella vendita di costosissime cuffie, per 3 miliardi di euro. Le cuffie di iPhone e iPod non sono più sufficienti per ascoltare musica? Ed Apple non era in grado di prodursele da sola? Cercando qualche intelligente punto di vista per capire meglio la questione, ho trovato questo articolo, davvero interessante. Secondo chi scrive, dobbiamo partire da Lady Gaga e dal fatto che la sua musica serve a vendere tutto tranne la musica stessa. Non è una spiegazione nuova (vedi qui) ma è molto interessante analizzarne il contenuto alla luce di un nuovo modo di fare marketing e non solo nel music business.

In un libro che sto leggendo si spiega come chi vende software non vende solo codice. Vende esperienza in specifici settori di business, vende un servizio di supporto per far funzionare quella soluzione, nella sostanza vende la propria azienda, il proprio brand, le proprie persone. Vende molto di più di bit e byte. Lo stesso vale per Beats. Non vende solo cuffie, punta a creare una piattaforma in grado di creare un legame diretto tra l'artista e i suoi fan che si concretizza in business legato a concerti, sponsorizzazioni, eventi e tanto altro. Far soldi con le cuffie, per quanto siano costose, è solo una parte dell'idea e neanche quella principale: il prodotto serve a creare la community dove far entrare le persone, farle divertire e far loro comprare un sacco di altre cose.

I 99 centesimi con cui iTunes vende le canzoni, modello di business geniale che dava una soluzione intermedia ideale tra i "costosi ma semplici da comprare" CD e i "gratuiti ma difficili da trovare" Mp3, forse stanno facendo il loro tempo. Lady Gaga dice che le sue canzoni neanche li valgono quei 99 cents perché sa perfettamente che il suo business non sta lì. La musica già oggi si ascolta praticamente gratis in streaming (anche con cuffie da 9,90 euro) e serve capire come monetizzare la musica senza contare sulla musica stessa. Che sia Beats il nuovo che avanza non lo sa ancora nessuno, Apple però scommette su di loro e lo fa senza eliminare il marchio che acquista, altra novità epocale per la società. Tante novità insomma.

Apple fa ancora i suoi margini sulle vendite dei prodotti (vedi qui) ma può essere che intravedano grossi mutamenti nel prossimo futuro. Se gli iPhone di domani servissero a vendere tutto tranne gli iPhone stessi? Vedremo cosa ha da dire Lady Gaga nel frattempo.

mercoledì 21 maggio 2014

Grilli, Vespe e fact checking

A margine della presenza di Beppe Grillo da Vespa (che non ho visto), vedo in giro un sacco di selfie dei due protagonisti (che non avrei voluto vedere) e leggo giudizi molteplici e numerosi. Se ogni tanto mi leggete, saprete quanto mi interessino giornalismo, fact checking e comunicazione politica. Ecco, tutte e tre queste passioni sono condensate in questo giudizio:
La cifra artistica della genialità di Grillo consiste proprio nell’aver definitivamente rottamato (anzi annichilito, vaporizzato, atomizzato) il concetto di fact checking in un paese che semplicemente non ha gli strumenti per discernere il vero dal verosimile.
Questa frase mi ha colpito per un motivo particolare: era l'unica dell'intero articolo (lo trovate qui) sul quale non concordassi per niente (il resto del pezzo è molto buono). Il fact checking in Italia è moribondo da decenni, semplicemente perché i giornalisti hanno perso le basi del loro lavoro. Grillo non ha rottamato nulla, ha fatto semplicemente come Berlusconi negli ultimi vent'anni: vai in diretta, vendi il prodotto con frase ad effetto, ripeti le cose più volte (o urlale, alla Grillo) e la pancia dei lettori/spettatori sarà saziata. Ha demonizzato per mesi l'ex cavaliere e la TV per poi utilizzarli entrambi per scopi che hanno un grosso limite: una tattica di brevissimo periodo. Nessuna strategia, nessun obiettivo, nessuna prospettiva di governo. Questo si è visto benissimo, nonostante i selfie del conduttore.

"La democrazia in diretta non funziona" si dice qui. Pienamente d'accordo. La differita metterebbe il giornalista in una posizione di vantaggio, avendo modo di verificare le informazioni. Se le TV vogliono la diretta, lo fanno anche loro per una tattica di brevissimo periodo: gli ascolti. I giornali avrebbero il tempo per fare quei controlli che rendono il fact checking una necessità per il giornalismo del futuro ma non li fanno, perché non interessano. Così dicono. Avete provato a leggere i dati delle vendite e degli ascolti? Sicuri sicuri che vada tutto bene così?

A mio modo di vedere, se qualcuno mi fa vedere, con metodo e preparazione specifica (il fact checking è cosa difficile da fare), che un politico mi ha raccontato un sacco di balle, non potrei fare a meno di ringraziarlo. Soprattutto nel caso di un giornalista. Dovrebbe essere il suo mestiere, non farsi le foto da solo con l'intervistato di turno.

giovedì 17 aprile 2014

Piccole, grandi lezioni di giornalismo

Sono a pranzo e leggo su Twitter che il Guardian ha cancellato un articolo che aveva pubblicato su un falco "assunto" dal Vaticano per proteggere le colombe del Papa. Era un pesce d'Aprile.
Va bene, direte voi, mica è la prima volta, cosa c'è da commentare? C'è tanto da dire, invece. E sta tutto in quelle tre righe: il Guardian ammette di averlo cancellato, non lo cancella e basta. Comunica al suo lettore tre cose, in modo semplice, diretto, chiaro:
  • Anche noi dell'illustre The Guardian, freschi vincitori del premio Pulitzer, cadiamo nella trappola dei pesci d'aprile;
  • Ammettiamo serenamente per iscritto, sul nostro stesso sito, di aver preso una bufala e di non aver controllato bene le fonti, ossia di non aver fatto bene il nostro lavoro;
  • Te lo diciamo apertamente, caro lettore.
Si chiama sensibilità verso chi ci legge, ossia verso chi paga lo stipendio a tutti quelli della redazione. Ci ho già scritto in passato (vedi qui), lo ribadisco: sono sempre belle lezioni per il giornalismo in generale, specialmente quello italiano. Repetita iuvant.

lunedì 7 aprile 2014

Confessioni


Ultimamente sto frequentando poco questo spazio di parole, riflessioni e idee che è il mio blog. Mi scuso con tutti coloro che mi leggono ma sto dando assoluta priorità al lavoro: ho tante cose da fare e mi considero fortunato per questo. Sono in un periodo molto intenso in cui tutte le mie capacità, limitate, sono concentrate a promuovere l'azienda dove lavoro e i suoi prodotti. Un sacco di riunioni, un sacco di riflessioni su pricing e personalizzazioni, un sacco di ore impiegate in viaggi e parole. Prometto che tornerò ad aggiornare questo spazio con la frequenza che aveva, ossia almeno un post a settimana.

Intanto butto lì una veloce riflessione. Leggo molti articoli che sottolineano sempre il potere dei Social Media (eccone uno) e, dal punto di vista professionale, li condivido. Tuttavia la mia esperienza lavorativa attuale, imperniata nel mondo del B2B, mi offre chiarissime indicazioni: se utilizzati bene, il telefono, la mail e gli incontri di persona fanno vendere, creano opportunità, ampliano le prospettive. I Social Media molto, molto meno. Forse è ancora presto, forse non li usiamo con la necessaria potenza di fuoco ma, tirando le somme, restano un ottimo canale di relazione ma, al momento, non di business.

Come sapete, non è un'opinione nuova (vedi qui) ma ora ho numeri, e molto chiari. Purtroppo non li posso comunicare, sono dati aziendali ma vi assicuro che tira di più una mail, o un incontro (condito da empatia e sincerità), di un carro di tweet. 

(Photo credits: http://tantodomanimisveglio.blogspot.it/2012/07/torno-subito.htmlhttps://www.flickr.com/photos/paolobis/)

mercoledì 12 marzo 2014

Il futuro del giornalismo? Integrità e correttezza


Ho scritto spesso di come esista un territorio molto ampio tra come è percepito il giornalismo dagli addetti ai lavori e da tutto il resto del mondo. I primi vedono erose tutte le loro certezze, non esistono, ad oggi, modelli di riferimento per capire come sarà il giornalismo non dico tra 20 anni ma anche tra 5. I secondi invece vedono il giornalismo come lo si vede da sempre nel cinema e nei giornali, un mondo fatto da gente romantica a cui piace scrivere che va alla ricerca di notizie tra corruzione e affari sporchi, il tutto pagato da lettori e investitori in pubblicità. Ecco, questa distanza la spiega benissimo un articolo scritto da Margaret Sullivan, il "controllore" degli articoli del New York Times (il Public Editor, dicono loro). L'articolo è stato ripreso molto bene dal Post, che lo spiega e lo integra con altre riflessioni interessanti sul modo specifico della redazione di fare giornalismo.

Mi soffermo su due concetti fondamentali, e non solo per il New York Times. Gli strumenti cambieranno e molto velocemente, i modelli per portare avanti un giornalismo che faccia profitti (ok le belle storie ma non solo di questo vive il giornalista) devono ancora essere trovati, ci sono tante incertezze. L'unico modo di andare avanti è attaccarsi ai veri requisiti che fanno del giornalista, o di quello che dovrebbe essere, un vero, e utile, tramite tra una notizia e una persona comune: integrità e correttezza. Integrità vuol dire avere rispetto di chi legge, vuol dire citare le fonti di chi ha detto alcune cose, vuol dire avere a cuore il proprio lavoro e la propria passione. Correttezza significa dare notizie verificate e controllate, in più vuol dire ammettere di aver sbagliato e farlo pubblicamente, senza darci troppa enfasi ma con onestà intellettuale. Cito la Sullivan (tradotta dal Post):
Siamo tutti in una gara mondiale per dare le notizie subito. Ma la verità accertata è più importante che mai, e a volte è meglio rallentare. [Diversi recenti esempi] hanno ricordato l’importanza dell’informazione coi piedi per terra, soprattutto nelle situazioni concitate.
Integrità e correttezza vuol dire guardare al futuro tornando un po' al passato, quando le notizie erano pubblicate da pochi produttori di informazioni. Ora produttori lo possiamo essere tutti, basta un blog, ma alcune regole, quelle davvero importanti, contano ancora. Una di queste si chiama credibilità. Quella non si compra e, al tempo stesso, vale come l'oro. Oggi come domani.

lunedì 24 febbraio 2014

Comunicare (e vendere) con gli sticker

Qualche giorno fa parlavo con un mio collega dell'affare Facebook-Whatsapp, principalmente dei "19 miliardi di dollari". Poi il discorso si è spostato all'utilizzo delle emoticon all'interno dei messaggi di chat, battezzandolo come "una cosa che fanno tantissimo i ragazzi". Aprendo poi il mio profilo Whatsapp, mi sono reso conto anche di quanto io, non proprio un ragazzino, li usi in modo molto più esteso rispetto a quanto mi rendessi conto. Perché? Sono immediati, basta un tap, senza scrivere niente, per commentare qualcosa in modo molto più veloce ed efficace di tanti giri di parole. Ovvio, non sostituiscono le frasi ma per farsi sentire e dire la tua in una chat sono ideali.

Oggi leggo un bel post di Marco Massarotto e scopro che una piattaforma di messaggistica istantanea ha poggiato proprio sugli emoticon, anzi sulla loro evoluzione, una buona parte del suo modello di business. Line, una specie di Whatsapp giapponese molto in crescita, fa molti soldi con la vendita degli sticker, di fatto emoticon evoluti e più complessi che entrano a fare parte integrante della conversazione stessa. Alcuni sono gratuiti, altri si comprano o noleggiano per un tempo limitato. In più, Line propone alle aziende stickers personalizzati per il loro brand o il loro settore di business, in modo tale da usarli per promuovere i propri prodotti o servizi (guardate qui sotto, ad esempio).


Un modello interessante quindi perché non poggia sulla vendita dell’app (scelta complicata per tutti, come appare evidente) né sulla pubblicità. Certo, ci sono anche servizi aggiuntivi, quali giochi e applicazioni per l'intrattenimento, che rendono sostenibile il modello proposto da Line. Forse, ad oggi, non si vive di soli sticker e bisogna vedere se questi, molto utilizzati in Asia, lo saranno altrettanto nei paesi occidentali. Quel che è certo è che battezzarli come "cose per ragazzi" forse è riduttivo, specialmente per quelli della mia generazione. Stiamo a vedere, anche perché il tema "Whatsapp e dintorni" è caldo, come potete leggere qui sotto.

venerdì 14 febbraio 2014

I minori sui media: cinque riflessioni quotidiane


Leggo un bell'articolo di Wired sulla scelta di una mamma di non pubblicare le foto di sua figlia su Facebook, Twitter o altri luoghi. Se mi leggete un po', sapete che la questione delle immagini dei minori è un mio pallino da un po' (vedete qui). Ritengo che ognuno con le sue foto ci fa quello che vuole, e questo vale anche per quelle dei figli, di cui i genitori tutelano i diritti. Proprio per quest'ultimo motivo, non voglio dare consigli, solo qualche spunto di riflessione con cinque semplici domande:

  • Siamo sicuri di conoscere bene le nostre impostazioni di privacy sui vari social network?
  • Sappiamo che le foto che pubblichiamo su Facebook appartengono a Facebook che può farci, più o meno, quello che gli pare?
  • Siamo sicuri che i nostri figli approveranno, quando capiranno cosa vuol dire, la nostra scelta di pubblicare online le loro foto in modo massivo e in totale buona fede?
  • Siamo sicuri di essere così diversi dagli adolescenti che talvolta critichiamo per il fatto che "mettono tutto online"?
  • Siamo sicuri di essere consapevoli del nostro ruolo di produttori di contenuti e di informazioni di cui abbiamo la responsabilità?
Se le risposte sono tutte affermative, c'è già stata una bella riflessione a monte, che è quello che serve davvero. Se non sono tutte affermative, meglio pensarci su due minuti. Non costa quasi nulla. Io cerco di farlo tutti i giorni.

giovedì 6 febbraio 2014

In un mare di news, contano le relazioni


Dati,sensazioni, riflessioni. Partiamo dai dati: ogni giorno, a quanto pare, siamo bombardati da 5.000 messaggi diversi provenienti da fonti diverse. E, inevitabilmente, tendiamo a ignorarne sempre di più, molto spesso in modo inconscio. Questo non contribuisce a selezionare le notizie che ci interessano maggiormente, specialmente quelle provenienti da brand che, in realtà, potrebbero e dovrebbero interessarci. La febbre da comunicazione online, spesso causata da poche basi solide a livello di cultura di marketing e comunicazione, prevede l'uso di potenti mezzi a basso costo per bombardare a tappeto. I dati dicono che oggi serve a poco, domani servirà ancora meno.

Le sensazioni. Lavorando sul campo tutti i giorni mi accorgo di come, alla fine, gli strumenti tradizionali come gli incontri faccia a faccia, le mail e le telefonate, ossia le modalità di comunicazione one-to-one, permettano di ottenere più risultati di decine di altre attività più innovative ma delle quali, inevitabilmente, perdiamo il controllo. Le persone vedono che dall'altra parte c'è una singola persona che dedica il suo tempo a loro, solo a loro, in quell'istante. Tempo che spesso non porta a risultati concreti ma che crea opportunità che, si sente, sono più solide, più possibili, più realistiche.

Le riflessioni. Nell'era della quantità facile e gratuita si deve tornare alla qualità difficile e costosa in termini di tempo per ottenere risultati? Dico di sì. Questo è quello che porta, durante una riunione, una telefonata, uno scambio di opinioni su Skype e altri contesti, a sentire buone sensazioni, a cercare di capire davvero chi c'è dall'altra parte, guardandolo in faccia, sentendo il suo tono di voce, vedendo che parole usa per rispondere. Mi sa che la partita, quella vera, si gioca su cose come empatia, coinvolgimento, fiducia, rispetto e reputazione. Tutte cose che si costruiscono in modo lento in un mondo sempre più veloce. Paradossale? Mica tanto. Il tempo costa e va gestito al meglio.

(Photo credits: http://www.apairofpears.com/2014/01/tgif.html)

mercoledì 22 gennaio 2014

La notizia della morte di Facebook è fortemente esagerata


Da tempo leggiamo che Facebook non è più the place to be, il nuovo che avanza, il posto dove tutti sono e parlano in continuazione. Vediamo molto spesso dei de profundis che segnalano una morte lenta ma costante del social network per eccellenza, causata da molteplici fattori coincidenti: nascita di altri posti sociali più cool, arrivo dei genitori a rovinare le chiacchierate degli adolescenti, teorie socio-macro-economiche di vario tipo, un'epidemia da curare, etc. Certo, è evidente, nessuna cosa di questo mondo può crescere all'infinito (pensate che per la prima volta calano le vendite in Italia anche della Ferrero e della sua Nutella, notizia che avrà un suo post dedicato appena trovo qualche numero in più da analizzare) ma dire che "Facebook è morto", come tutte le frasi analoghe con qualsiasi soggetto che non riguardi cose prima realmente vive, va bene solo per un articolo o un post di un blog per voglia raccattare qualche visitatore in più.

Leggete questo ottimo pezzo di Rivista Studio e vi fate un quadro molto preciso. Calano gli active users? Zuckerberg e soci si portano a casa "oltre 2 miliardi di dollari, con un guadagno di 25 cent per azione a fronte di stime più basse". Non male per un morto. E la chiamerei maturità. Chiaro, Facebook sta cercando nuovi modelli di crescita di altro tipo, in primis legati al mobile: non ho mai fatto particolarmente il tifo per quelli di Menlo Park, anzi, ma i numeri sono lì. Un particolare: guardate la foto del Presidente Obama pubblicata sull'articolo citato su e notate da chi è attorniato. Tutti trentenni o giù di lì (vedi anche qui). Poi si capisce perché gli Zuckerberg (ma a sua volta anche i Bill Gates di anni fa) crescano lì e molto, molto più che da noi. Si chiama fiducia nella generazione successiva. E quella è davvero moribonda in Italia.

A proposito di cose che apparentemente muoiono, chiudo con un addio al Giornalaio, uno dei miei blog di riferimento. Solo che non se ne va, si evolve in qualcosa di nuovo, ossia DataMediaHub, progetto davvero interessante a cui va il mio personale in bocca al lupo. "Se il chicco di grano non cade in terra e non muore, rimane solo; se invece muore, porta molto frutto" diceva uno che di morte, e resurrezione, se ne intendeva parecchio. Forse è meglio rifletterci su prima di lasciarsi andare a titoli facili, no? Io ho parafrasato Mark Twain, mi considero a posto.

Aggiornamento del 24 gennaio: a quanto pare, neanche chi lavora in Facebook è, al momento, così moribondo. La replica alla ricerca di Princeton è semplice e brillante (e leggete il paragone con l'aria, illuminante). Diffidare sempre delle previsioni sul futuro fatte su quanto accaduto in passato.

mercoledì 15 gennaio 2014

Redazioni "aperte": è La Stampa, bellezza


Quasi due anni fa scrivevo che i due quotidiani italiani sui quali scommettevo a livello di intraprendenza verso il futuro del mondo del giornalismo erano La Stampa e Il Sole 24 Ore. Del quotidiano piemontese mi aveva molto colpito l'editoriale del direttore che parlava di tre figure nuove per il suo giornale e non solo: Digital Editor (Marco Bardazzi), Web Editor (Dario Corradino) e Social Media Editor (Anna Masera). "Un giornale è un corpo vivo, che deve sapersi sempre adattare all’ambiente in cui si muove" si scriveva testualmente. Poteva sembrare un annuncio fatto sull'entusiasmo del momento, per cogliere al volo le nuove mode legate a Social Media e redazioni liquide per rendersi protagonisti, con obiettivi di breve periodo. Poteva sembrare.

A due anni di distanza, quell'annuncio è stato seguito da tante iniziative e una recentissima conferma della voglia di adattarsi al mondo che cambia. Nel momento in cui Anna Masera ha deciso di cogliere un'occasione importante (temporanea e non priva di rischi, dato che mettere insieme giornalismo, comunicazione e politica è difficile a livello di credibilità), il giornale ha preso una decisione nuova, fuori dagli schemi: ha nominato come Social Media Editor un non giornalista, Pier Luca Santoro (@pedroelrey su Twitter). Un grande professionista, competente ed esperto, oltre che un amico, ma di fatto privo di tesserino (come ha notato per primo Carlo Felice Dalla Pasqua, altro amico e, lui sì, giornalista). Particolare per nulla trascurabile, se si conosce un attimo il conservatorismo del mondo del giornalismo italiano (io sono giornalista iscritto all'Albo, sottolineo).

Non ci si ferma qui. I responsabili del quotidiano hanno deciso che Pier Luca sarà solo il primo esperto a essere coinvolto, ne sceglieranno uno ogni due mesi per portare idee, progetti, entusiasmo e competenze all'interno della redazione fino al ritorno di Anna Masera. Un passo importante, nuovo, da evidenziare. Che porterà giornalisti ed esperti della rete a conoscersi meglio, reciprocamente. Una prova? Leggete qui sotto. Mica facile il compito del Social Media Editor.

(Photo credits: www.notcot.com)

martedì 7 gennaio 2014

I 120 cani coreani: un caso di fact checking ben poco accurato

Facciamo un esempio facile dell'importanza del fact checking, oggi. Qualche giorno fa i media hanno avuto la possibilità di pubblicare una news strana, drammatica, cruda, che univa cronaca nera a relazioni internazionali, potenzialmente capace di generare molta visibilità. Non è parso loro vero: sparata subito online, spesso in prima pagina. Ma c'era un piccolo, trascurabile problema: la notizia era stata lanciata da una fonte poco affidabile, molto poco affidabile, e per nulla verificata. E lo sapevano tutti, compresi noi normali frequentatori di Twitter (vedi sotto).

Lo scetticismo è forte, fortissimo, ma nei media tradizionali, anche quelli molto autorevoli, lo si dice quasi sottovoce, la si butta sul solito "giallo" giornalistico (termine che, in questo specifico caso, pare quasi umorismo grottesco di bassa lega). Se le cercate oggi le notizie sono ancora lì. Invece è una bufala al 99%: pare che tutto sia nato da un famoso "battutaro da social media" cinese (sic), almeno così dice il Guardian. Ma a parte questo, il punto fondamentale viene sottolineato benissimo dal Washington Post, ci sono cinque grossi errori da parte dei giornalisti occidentali:

  1. La verifica delle fonti: il giornale di Hong Kong che per primo ha lanciato la notizia è 19esimo (su 21) nel ranking di credibilità dei soli giornali della città. 
  2. La verifica della copertura stampa in Cina: nessun altro media cinese ha rilanciato la notizia. Ok, sono alleati coi nordcoreani, si potrebbe dire ma la cosa appare strana lo stesso.
  3. La verifica della copertura stampa in Corea del Sud: la notizia non è stata ripresa dai media sudcoreani, che teoricamente avevano tutto l'interesse a sottolineare la crudeltà del regime del Nord. Invece ha prevalso un pragmatismo sulla verifica della notizia che, a quanto si dice, non è poi così usuale a Seul. Una lezione per tutti i media occidentali.
  4. La verifica dei tempi: la storia non è nuovissima, ha continuato a girare per giorni senza alcuna conferma, Qualche dubbio doveva nascere in menti obiettive.
  5. Le modalità: per quanto la Corea del Nord sia un paese del tutto particolare, hanno protocolli militari e penali molto rigidi. Se le principali agenzie sudcoreane dicevano "esecuzione per fucilazione", perché preferire i cani citati da un media di Hong Kong di bassissima credibilità?
Ho detto che è una bufala al 99%. Perché non al 100%? Perché a noi occidentali piace pensare alla Corea del Nord come a un paese strano, fuori dal mondo, dove può accadere qualunque cosa. Io non faccio eccezione. In più, non ci sono fatti che smentiscano in modo inoppugnabile la notiziaRimane però il 99 a 1: se doveste scommettere su vero e falso, cosa fareste? E poi è davvero così importante sapere se è stato fucilato o sbranato da 120 cani? E poi arriva Dennis Rodman...