venerdì 27 aprile 2012

Telephone strategy

"Ce l'avete una people stategy?", chiede quel geniaccio di Seth Godin nel suo ultimo post. Provocazione molto attinente in un settore marketing che ultimamente vuole rendere strategica ogni cosa. Bellissima anche la telephone strategy, che non c'è. O forse sì? Perché la telefonata resta uno strumento fondamentale per tutte quelle attività di relazione tra le persone che si creano sul lavoro e per il lavoro. Molto più di impatto di una mail o di una chat, sia in senso positivo che negativo. Ma quanti di noi sono stati "formati" nel fare le telefonate? No, non il telemarketing, definizione che non sopporto. Io ho sempre cercato di trasmettere alle persone che lavorano con me alcune regole di base sui contatti via telefono, imparate dall'esperienza di centinaia di contatti con potenziali clienti o illustri giornalisti. Il che non è altro che la somma degli insegnamenti derivati dagli errori. Sbagliando si impara ma se qualcuno ce lo dice prima, si sbaglia un po' meno e si impara lo stesso.

Ci sono alcune semplici regole che seguo e che spiego sempre a chi lavora con me. Tutte cose a cui si arriva col buon senso ma quando sei sul lavoro e ti fanno fare una chiamata importante, meglio avere qualcosa di chiaro stampato in testa:
  • Trattare tutti con rispetto e cortesia, tutti: quando si telefona per lavoro, la nostra voce è quella dell'impresa che rappresentiamo, non presentiamo solo noi stessi. Dallo stagista inesperto al Presidente, tutti devono essere trattati con rispetto perché tutti stanno lavorando. Non si sa chi parla dall'altro lato della cornetta, fare i "sedicenti supermanager un po' arroganti" non è mai un'opzione valida. Ricordiamoci che una segretaria ha il potere di passarci direttamente la persona che può essere decisiva per il nostro lavoro oppure rimbalzarci senza pietà. La cortesia è un'arma formidabile in questo senso perché genera empatia.
  • Diversificare il modo di telefonare: al telefono parliamo sempre con persone molto diverse, che vivono momenti diversi, che hanno priorità diverse. Inutile fare sempre il discorsetto spiegato dal capo (le telefonate delle compagnie telefoniche non vi piacciono molto, vero?), è l'interlocutore il fattore decisivo e purtroppo per noi non è prevedibile. Si tratta di mixare quello che sappiamo (la competenza innanzitutto) con un po' di improvvisazione, di intuito per capire quello che quella persona vuol sentire. Difficile, certo, ma uno dei segreti sta lì. Possiamo trovare un manager molto introverso e un funzionario chiacchierone, dobbiamo adattarci a entrambe le situazioni. 
  • Essere sempre noi stessi: qualunque sia il lavoro che facciamo, ai due capi della cornetta o del cellulare ci sono sempre due persone, due esseri umani, con pregi e difetti. Inutile fingere di essere chi non siamo, cerchiamo di trovare il nostro modo di comunicare, di parlare, di ascoltare. Dobbiamo creare una relazione, per quanto breve e interlocutoria: mettersi una maschera non serve a nulla, anche perché siamo al telefono.  
In un'era di Social Media Strategy, Content Strategy o qualsiasi altra strategy, una semplice telefonata fatta bene può aprirvi porte apparentemente invalicabili. Eppure non si insegna mai come farla bene. Siamo esseri sociali e cerchiamo relazioni con la gente, da sempre. Gli strumenti vanno e vengono, le persone restano.


(l'immagine è un piccolo omaggio a Roy Lichtenstein)

martedì 24 aprile 2012

Non siamo americani

de tauer
Noi non siamo americani. Lo so, detto così sembra ovvio ma per chi si occupa di comunicazione attraverso la Rete spesso la differenza tra noi e loro diventa sottile. Spesso leggo manuali scritti da esperti statunitensi, in cui ritrovo belle idee e spunti interessanti. Ma molte delle regole che propongono non possono essere applicate tout court alle imprese italiane, per un milione di motivi. Il primo, tanto per capirci, è che negli Stati Uniti l'azienda tipo, la protagonista della gran parte dei manuali, è la grande impresa con reparti comunicazioni ampi e specializzati, mentre in Italia dominano le PMI dove un responsabile comunicazione non c'è, spesso e volentieri. Verò è che l'America è il luogo dove il marketing ha preso corpo ma le sue regole sono molto più antiche: già i romani erano bravissimi ad applicarle (nel mio libro, che uscirà in estate, cito un paio di esempi illuminanti in questo senso). Abbiamo molto da imparare ma, allo stesso tempo, dobbiamo sapere cosa ci serve davvero.

Un recente post di Gianluca Diegoli cita un altro esempio di come trasformiamo il nostro modo di pensare per adeguarci a regole non nostre. Quante volte abbiamo letto articoli o post dal titolo "Le X regole per fare un Y di successo"? Tanti ma, scommetto, non ne riuscite a citare neanche uno. Noi non abbiamo quella forma mentis che privilegia un numero ristretto di input, siamo quelli che si basano su un misterioso mix di creatività e improvvisazione poco rappresentabile in X regole. Gli americani amano gli acronimi, noi non sappiamo neanche che FIAT nasce da Fabbrica Italiana Automobili Torino. Altro esempio: in Rete si legge ovunque la parola "startup" e "startupper", il che non è per niente un male. Tuttavia rischiamo di perdere il contatto con la realtà di migliaia di PMI, già nate ed esistenti oggi, che hanno bisogno di capire come devono comunicare, non solo online. Mauro Lupi ha perfettamente centrato il punto e c'è poco da aggiungere.

Dobbiamo partire dal presupposto che abbiamo una struttura produttiva particolarissima, con piccole aziende che nonostante tutto tengono duro e vendono, soprattutto all'estero. Pensare che uno o più guru americani siano la soluzione pronta all'uso per la comunicazione online è azzardato. Non siamo americani, e non è un male.

(photo credits: Flickr, * RICCIO)

giovedì 19 aprile 2012

La home page? La decide il lettore

In questi giorni il dibattito sul killer di Utoya (su questo blog non leggerete mai il suo nome, per precisa scelta di chi scrive) e sul suo processo è su tutti i giornali. Nasce però un problema: i messaggi, spavaldi e deliranti, di questo tizio arrivano a tutti i lettori dei quotidiani, ovviamente mediati e analizzati, ma arrivano. Io sono sempre stato per la massima libertà di informazione, perché l'utente/lettore medio è persona senziente e non si beve tutto quello che scrivono i giornali senza spirito critico. Però, lo confesso, vedere quella faccia sorridente in prima pagina un po' mi ha dato fastidio e, probabilmente, anche a molti altri. Però non si può censurare, la notizia c'è ed è giusto che ci sia. Che poi in Italia ultimamente i reportage si facciano solo su fatti di cronaca nera è un altro discorso.

Il quotidiano norvegese Dagbladet, che sta seguendo gli eventi in modo ampio e approfondito, ha avuto un'idea molto intelligente: dare la responsabilità al lettore se leggere le news sul processo di Utoya o meno. Cliccando il bottone "forside uten 22. juli-saken", in nero in alto nell'home page (vedi sotto), si può scegliere se visualizzare queste notizie o meno.

L'home page di Dagbladet con il processo di Utoya

L'home page senza il killer, dopo aver cliccato l'opzione in home page

Nessuna censura, il lettore sa che la notizia c'è e decide, in piena autonomia, se leggerla o meno. Qualcuno può obiettare che basta un click su un altro link e si effettua la stessa scelta ma il quotidiano trasmette un messaggio simbolico importante ai suoi lettori: sappiamo che vi può dare fastidio e vogliamo darvi un'opzione in più. Una bellissima idea. Io, se fossi norvegese, sceglierei di non leggere le notizie su Utoya, consapevolmente: il mio giudizio me lo sono già fatto, spero solo che lo mettano in galera quanto prima con qualche decina di ergastoli. Non mi interessano neanche i plastici di Vespa, che lui "impone" ai propri spettatori. Io sto con il Dagbladet.

Un'ultima cosa, last but not least. La notizia di questa idea l'ho sentita su Radio 24 ma non avevo capito né il nome del quotidiano né dov'era il link (il mio norvegese è molto migliorabile). Ho chiesto direttamente su Twitter al conduttore, Alessandro Milan, e al giornalista norvegese, Simen Ekern. Ho avuto da loro chiarimenti veloci e diretti, li vedete sotto. A cosa servono i Social Network? Ecco un bell'esempio di fact checking. Dopo le parole, i fatti.


 

mercoledì 18 aprile 2012

La comunicazione cooperativa oggi

Cambiano i mezzi, rimane intatta l'importanza del lavoro di ogni socio
Agli inizi di aprile, la Legacoop emiliana ha organizzato un evento per presentare i risultati di una ricerca sul rapporto tra la comunicazione e il mondo cooperativo: "Facecoop. Le cooperative nell'epoca web 2.0". Lo studio è stato pubblicato interamente da qualche giorno (lo trovate qui). Pur nei limiti di un campione molto ristretto di intervistati (12 imprese e 3 gruppi), emergono risultati piuttosto interessanti da analizzare:
  • Target: per le cooperative di persone, i soci si confermano il target primario, senza sorprese. Quello che colpisce è invece che per le cooperative di lavoratori i soci non siano così prioritari, ci si concentra molto di più verso gli enti pubblici e le imprese committenti (72%), in un'ottica molto più "business-oriented". Questo dato sottolinea quello che si intravede da un po' per le cooperative più importanti e strutturate: iniziano a ragionare più come aziende tradizionali che come promotori della "funzione sociale di cooperazione".
  • Sito Internet: è uno strumento di comunicazione prioritario per le cooperative ma con un ruolo ancora molto tradizionale e conservativo. Stupisce che non sia così forte la volontà di creare una community intorno al portale (solo un'azienda l'ha evidenziata), visto che in queste società il senso di appartenenza alla propria comunità è fortissimo. Probabilmente si paga lo scotto di considerare ancora il sito come una "vetrina" e non come un hub comunicativo che convogli tutte le necessità di informazione e approfondimento sulla cooperativa stessa.
  • Contenuti: la ricerca evidenzia un approccio tradizionale top-down (dal vertice alla base) per quanto riguarda la concezione e la realizzazione di contenuti online. La presenza di molti link esterni (per 13 aziende su 15), di bottoni "sociali" e di elementi multimediali dimostra come ci sia un'evoluzione in atto, verso una sperimentazione più accentuata. Sorprende la poca importanza data alle newsletter (solo 4 imprese) e al blog aziendale (4 imprese anche qui), strumenti che potenzialmente possono essere un elemento fondamentale per informare costantemente i soci o gli utenti esterni sulle notizie relative alla cooperativa.
  • Social Network: anche in questo caso, i risultati confermano un atteggiamento molto conservativo, privilegiando Facebook su tutti gli altri. Tuttavia, l'interesse a creare relazioni bidirezionali (e la relativa "perdita del controllo delle informazioni") sembra ancora piuttosto basso, esattamente come accade per le imprese tradizionali.
  • Comunicazione interna: le cooperative hanno quasi tutte delle Intranet ma solo 5 hanno un portale di accesso ai contenuti e alle funzionalità (fatto con Sharepoint o altri software). Anche in questo caso, la poca attenzione alla comunicazione interna sorprende vista la particolare tipologia di azienda, che dovrebbe essere molto più attenta all'accesso alle informazioni dei propri soci-lavoratori. Le motivazioni, legate principalmente al digital divide (non tutti i dipendenti lavorano col PC), non convincono.
Al di là dei risultati, la cosa molto significativa di questa ricerca è che, nella seconda parte, suggerisce delle linee guida per migliorare la comunicazione delle cooperative. Non è cosa così scontata. Le possibili proposte si concentrano su blog, Social Network, pagine Wiki, Intranet e crowdsourcing (e relativa "cassetta delle idee"), idee e riflessioni che sottoscrivo in pieno.

Il quadro che appare, pur nei suoi limiti numerici, ci dice che le cooperative dimostrano di avere le stesse caratteristiche negative delle imprese tradizionali: poca cultura della comunicazione, scelte conservative e relativa volontà a creare relazioni con gli utenti. Tuttavia, possono avere un grande vantaggio: coinvolgere meglio e di più i soci. Se questo può essere un valore aggiunto nel caso di un dipendente, per una coop può essere decisivo nella creazione di un blog, una newsletter o di un profilo su un Social Network davvero efficace. Staremo a vedere, intanto complimenti alla LegaCoop e ai suoi partner (tra cui il sempre bravissimo Michele D'Alena) per l'eccellente lavoro svolto.

(la foto si riferisce agli "scariolanti" al lavoro, leggete qui per saperne di più)

lunedì 16 aprile 2012

Appunti dal VeneziaCamp

Venerdì 13 io e Pier Luca Santoro abbiamo partecipato al VeneziaCamp per parlare di Fact Checking, Social Media e futuro del giornalismo. Una gran bella esperienza perché, come sempre accade, i camp permettono di conoscere direttamente molte persone che si sentono quotidianamente online, con molte conferme, tante sorprese positive e qualche rara delusione. Qui sotto vedete la presentazione che abbiamo tenuto.
Il fulcro della bella discussione che si è creata stava nel come il fact checking potesse e dovesse diventare un momento centrale del nuovo modo di fare informazione (come sostiene anche Clay Shirky). Questo significa che un nuovo modello di creazione di una notizia deve prevedere un confrollo dei dati e dei fatti citati, che deve coinvolgere il primis i giornalisti ma anche i lettori. Io e Pier Luca abbiamo citato due casi in cui noi, semplici fruitori di news, abbiamo verificato e chiesto conferme su una notizia a chi l'aveva creata, grazie ai mezzi che abbiamo a disposizione attraverso Internet (io per il caso di Costa Crociere, lui per quello di Mohammed Merah). I creatori e i fruitori di informazione devono indirettamente collaborare per affrontare e mettere ordine nel tornado informativo che ci colpisce tutti i giorni. La parola d'ordine è una sola: credibilità.

Il confronto sui vari temi, molto semplice e diretto, ha visto il coinvolgimento di Carlo Felice Dalla Pasqua, Vittorio Pasteris, Antonio Pavolini, Galdino Vardanega e molti altri. In più, nel corso dell'evento, ho rivisto vecchi amici come Gigi CogoAndrea Casadei, Giorgio Jannis e Gilberto Dallan e ho conosciuto molta altra gente interessante. In questi momenti ho visto persone davvero interessate ai temi che abbiamo trattato, ho sentito e percepito un reale coinvolgimento. Qualcosa di molto più intenso rispetto a un like o un retweet.

Aggiornamento:
la slide 30 parla di fact checking a posteriori, ossia la segnalazione di una correzione sull'articolo derivata da un controllo successivo. Durante l'intervento, si è detto che i giornalisti italiani non l'avrebbero mai fatto, perché avrebbe sminuito i loro articoli. Io rilancio: se lo fa il New York Times (vedi sotto), lo possono fare tutti.

mercoledì 11 aprile 2012

Cataloghi di prodotto: nubi di ieri sul loro domani odierno

Nella mia azienda sono giornate intense perché stiamo progettando la strategia di lancio di uno dei prodotti di punta. Si tratta di una fase dura ma bellissima, nella quale si devono avere molte idee, alcune da scegliere e molte da scartare. Il discorso è caduto inevitabilmente sulla questione che coinvolge, da sempre, chi lavora nel marketing: come facciamo la brochure? Parto da un presupposto: i cataloghi di prodotto non li leggo quasi mai, solo se devo. Che siano cartacei o digitali, poco importa: ho sempre la strana impressione che non rispondano davvero alle mie domande. I siti Internet spesso sono molto più brutti a livello grafico e di impatto visivo ma, altrettanto spesso, mi chiariscono più semplicemente e velocemente i miei dubbi. La questione che mi sono posto è: i tablet possono rappresentare davvero l'ideale connubio tra carta e digitale per descrivere e promuovere a dovere un prodotto?

Di brochure su tablet se ne parla ormai da tempo ma quelle che ho visto io non mi hanno mai colpito per originalità. Quasi sempre erano soluzioni fatte solamente per colpire al primo impatto, solo per far vedere di "esserci" sull'iPad, non veri e propri punti di riferimento informativo sui quali approfondire alcune caratteristiche di un prodotto interessante. Io le sfoglio, non le leggo (un esempio). L'unico vero caso di successo sono i cataloghi Ikea, le cui informazioni si possono anche condividere in modo fulmineo sui principali Social Network. Ma noi non siamo Ikea. Cercando altri esempi, non ho trovato molto di interessante. Ho la sensazione che i tablet oggi servano solo a portarsi dietro informazioni leggere (ossia digitali) e non 4 chili di carta. Vantaggio non trascurabile, certo, ma si può osare molto di più. Per ora ci si ferma alla forma, la sostanza verrà, forse.

Al momento non ho risposte, solo domande e curiosità. Quel che è certo è che vedere un commerciale sfogliare un catalogo sul tablet davanti al potenziale cliente non è una soluzione (bancario, se ci sei batti un colpo). L'esperienza di chi deve comprare deve essere diretta, coinvolgente, personalizzata, libera. Un bel caso di successo è la sezione del sito Apple dedicata all'iPad: tutte le funzionalità sono espresse con esempi semplici e chiari, in una pagina con uno scroll così lungo che sarebbe stato impensabile solo qualche anno fa. Ma noi non siamo Apple. Però la soluzione di mettere tutto nel sito, dove non devi cercare ed è tutto lì, mi piace molto (vedi anche qui). Che sia l'uovo di Colombo? Io continuo a studiare, mentre vedo agguerriti responsabili marketing e commerciali mostrare fieri i loro tablet senza, di fatto, saperli usare. Fa sorridere. Se vi capita, provate a chiedere loro di vedere il loro sito Internet sull'iPad. Magari li farete riflettere.


(il titolo è una famosa citazione)

venerdì 6 aprile 2012

Tutti sono leader, pochi sono credibili


Oggi ho organizzato un'intervista con un giornale locale per la mia azienda, ne è venuta fuori una bella chiacchierata. Uno dei temi che sono stati affrontati è la rigidità che le PMI dimostrano nell'approcciarsi verso l'esterno, nella loro titubanza nel cogliere le opportunità di comunicazione quando si presentano. Penso che il problema stia sempre nella mancanza di una cultura in questo settore che ti faccia capire cosa si debba fare e cosa no. Il giornalista è rimasto stupito della semplicità utilizzata dai due soci fondatori dell'azienda nel parlare tranquillamente dei loro inizi, delle loro difficoltà, del loro approccio e, soprattutto, della totale mancanza di interesse nell'essere definiti "leader", "innovatori" e altri aggettivi simili. Come spiegava, tante aziende volevano intervenire direttamente nell'articolo, infarcendolo di parole roboanti per far vedere ai lettori quanto fossero bravi. Noi abbiamo detto che il nostro obiettivo era molto diverso: vogliamo essere credibili.

A livello di comunicazione, è difficile trovare una PMI italiana che non si autodefinisca "leader" in qualcosa. Con l'abuso di questo termine, si è svuotato il suo stesso significato: se tutti sono leader, nessuno lo è davvero. Lo stesso discorso vale per molti altri aggettivi, usati e abusati. Il problema è un altro: il 95% delle imprese italiane ha meno di 10 dipendenti, come possono essere tutte "prime della classe" se sono così piccole? Quello che il giornalista ci faceva notare è che veniva fuori dalla nostra chiacchierata uno spaccato molto realistico dell'azienda e lui stesso si sorprendeva di notare questa cosa. Dovrebbe essere sempre così e invece lo è raramente. Tante altre cose confermavano quest'approccio molto genuino: un atteggiamento semplice, il "tu" posto subito come base della chiacchierata, la totale mancanza di imposizione di una gerarchia di rapporto tra i soci e il resto della società. Tutti elementi che arrivavano naturalmente al nostro interlocutore, non serviva che qualcuno li spiegasse.

L'esperienza mi ha insegnato che un'azienda si capisce più dalle cose che non dice rispetto a quelle che dice. Se in un sito, in un documento, in una conversazione mancano quelle tematiche che uno si aspetta di trovare, quasi mai è un fatto casuale. Il problema è che spesso mancano anche le caratteristiche positive dell'azienda, che non vengono comunicate perché si preferisce dare una visione piena di "leadership" e di "innovazione" quando sarebbe più importante far vedere i dipendenti al lavoro, i progetti realizzati, le immagini della vita dell'impresa. Come ho scritto più volte, comunicare la verità può determinare un vantaggio competitivo decisivo perché le persone, intuitivamente, percepiscono questa differenza rispetto al resto. Non è così facile, ci vuole un po' di coraggio. Ma la credibilità rimane, e rimarrà sempre, un'arma vincente. Oggi ne ho avuto l'ennesima conferma.

lunedì 2 aprile 2012

Pinterest? Ci sono altre priorità


Seguire le mode non è quasi mai una buona idea, specialmente nella comunicazione online. Si tratta di uno dei miei cavalli di battaglia, perché lo scenario è sempre questo: un imprenditore legge di un nuovo strumento di comunicazione e/o Social Network su qualche quotidiano, mi chiede un parere, io gli consiglio di guardarsi il suo sito, lui si accorge che non va bene e mi chiede se valga la pena aggiornarlo quando c'è "the next big thing". Il problema è sempre quello: non essendoci in Italia una cultura della comunicazione, ci si affida a quello che si legge sui giornali o sui siti. L'ultima moda in ordine di tempo è Pinterest. Non sapete cos'è? Ve lo spiega Pier Luca Santoro, ma online ne trovate molti di post dedicati a questo nuovo Social Network. A me non è mai piaciuto, perché non fa quello di cui molti di noi hanno bisogno: razionalizzare e ordinare le numerose informazioni che troviamo online, dando priorità a qualità, cura e importanza. Qui si mette insieme tutto: farlo è molto divertente, ma è utile?

Le PMI hanno bisogno di capire come si comunica online e si deve partire sempre dalle basi. Una conferma eccellente di questo approccio realista la offre Luca Conti, un punto di riferimento stabile per chiunque in Italia voglia conoscere come si comunica online. "Mostrare la pepita di Pinterest a gente che non ha ancora capito come funziona un sito web e una Pagina su Facebook, è fumo negli occhi" scrive sul suo post di oggi. Una frase da stampare e appendere vicino alla scrivania. Perché siamo sommersi da news e infografiche che magnificano le doti del nuovo che avanza. Ma queste derivano dalla volontà di parlare del nuovo da parte degli addetti ai lavori, non da una necessità reale delle aziende. In più, Luca evidenzia un punto che ho toccato qualche giorno fa: non c'è una metodologia chiara e autorevole per fare un'infografica. Non sono segnalate le fonti, i grafici sono troppo semplificati, tanto per dirne due. Certe volte, la forma prende quasi tutto, lasciando le briciole alla sostanza. Non è quello di cui le aziende, ma anche le persone, hanno bisogno.

So perfettamente che negli ultimi giorno sto scrivendo spesso le stesse cose (l'età avanza, purtroppo) ma noto che è un problema piuttosto urgente. Le persone e le aziende su Internet devono dare una sola cosa, prima di tutto: credibilità. Il che vuol dire notizie affidabili, fonti certe, dati verificabili. In questo senso, Pinterest è uno strumento troppo giovane, come minimo, per essere la risposta alle necessità di una PMI italiana. Anche noi addetti ai lavori dobbiamo fare autocritica: ci facciamo prendere un po' troppo dalle mode, in buona fede semplicemente perché abbiamo voglia di esplorare nuovi posti e vedere nuovi orizzonti. Ma i nuovi sentieri devono essere conosciuti bene, provati e tracciati su una mappa prima di essere davvero utili. Come dice Luca Conti, la fuga in avanti di un'avanguardia non serve a nulla se non è utile per il resto della carovana. E quest'ultima ha bisogno di cavalli in forma e ruote solide prima di intraprendere qualsiasi viaggio.