martedì 25 settembre 2012

L'Huffington Post e la carica dei blogger


Oggi è nato l'Huffington Post italiano e non ho nulla di nuovo da dire rispetto a quanto già scritto a gennaio 2012. A parte una leggera sorpresa sul fatto che alcuni, troppi, si aspettavano un giornale "progressista" (forse perché è sostenuto dal Gruppo Espresso), quando invece l'HuffPo è assolutamente conservatore nel modello, nella struttura e negli obiettivi. Volete una prova tangibile? Guardate l'età anagrafica dei sedicenti blogger. Io ho fatto due conti: in media, 47 anni, tenendo dentro anche la 17enne Bianca Miccione che la abbassa sensibilmente. Questo è un nuovo media per un nuovo mondo, come dice il suo Direttore? Non sono d'accordo. Volete fare davvero un nuovo media? Fate un ProPublica italiano, un politico.com nazionale, fate fact checking e non enormi splash page con la faccia di Berlusconi.

Per il resto, tanti hanno già fatto loro gli auguri, molti di cui condivido le opinioni, come Pier Luca Santoro, Riccardo Esposito e Davide "Tagliaerbe" Pozzi. Abbiamo bisogno di altro, cari editori, soprattutto di un modello giornalistico sostenibile e non di un esercito di blogger non pagati se non con una "visibilità" che non copre neanche le spese in termini di passione per l'informazione. Questa non è una notizia in Italia. Lo sarebbe invece pensare a un nuovo modo di gestire le news fatto di scelte coraggiose, di credibilità e di professionalità. A proposito di blogger, ne servono altri 400, che inizi la carica. Bella e inutile, proprio come quella di Balaclava, quella dei 600: vi piace la mia splash page?

Aggiornamento: per il reclutamento dei blogger, non si inizia bene.

lunedì 24 settembre 2012

Ti racconto un'Impresa


C’era una volta un’impresa italiana che aveva un problema di comunicazione. Aveva un grande stabilimento in Cina, produceva lì e fin qui nulla di male. I suoi concorrenti tuttavia sottolineavano spesso e volentieri che i suoi prodotti erano “fatti in Cina”, presupponendo una qualità generale inferiore secondo l’accezione comune (un tema dibattuto spesso, in vari settori).
Quell’impresa mi chiamò per una consulenza, per sapere cosa doveva fare. Io feci una breve intervista al responsabile, come faccio sempre (e ho scritto come farle), ponendo qualche semplice domanda:
  • I prodotti fatti in Cina sono qualitativamente inferiori? No, mi dissero, rispettano tutti gli standard dei nostri reparti italiani, anzi anche alcuni più rigorosi. Non sono di certo peggiori di quelli dei concorrenti.
  • Avete delocalizzato là? No, le nostra impresa è cresciuta, abbiamo aperto una filiale commerciale in Cina, vendevamo tanto e allora abbiamo deciso di produrre là per vendere direttamente là. Poi, quei prodotti ora vengono venduti in tutto il mondo.
  • Avete lasciato a casa qualche dipendente in Italia per questo? No, anzi ne abbiamo assunti per supportare la nostra crescita sia a livello di progettazione che di commercializzazione.
  • Avete pensato di chiudere qui e andare in Cina o in altri posti? No, la testa vogliamo tenerla in Italia, ben salda. Poi è chiaro che i nostri partner cinesi stanno crescendo con noi, anche a livello di competenze.
La domanda finale è sorta spontanea: perché non avete mai detto le cose che state dicendo a me al mercato e lasciate che a parlare siano solo i vostri concorrenti? Effettivamente, mi hanno risposto, non c’è una ragione. Abbiamo sempre pensato a produrre, mai a comunicare.
 
Quell’impresa, oggi, ha capito che non c’è niente di male a dire la verità ai propri potenziali clienti. A comunicare che produce in Cina per vendere in Cina senza vergogna immotivata, oltre a esportare in altri mercati emergenti così cresce anche nel suo complesso, Italia in primis (lo dicono anche imprenditori di primo piano). La Cina non è più solo un Paese di manovalanza a basso costo ma anche un mercato ricco che compra moltissimi prodotti italiani: 40 miliardi di Euro oggi, 60-80 tra qualche anno. Per questo, l’impresa ha creato un company profile (non ne aveva uno, solo qualche presentazione), sta progettando l’evoluzione del sito e altre iniziative di promozione. Ha capito che dev’essere lei, in primis, a spiegare le cose, che il lavorare bene non basta più per competere a livello mondiale, ci vuole molto altro.
 
Sono molto orgoglioso di aver collaborato con quell’impresa e di aver contribuito a questo passaggio culturale. Non so se vivranno felici e contenti per sempre. Le favole industriali sono diverse da quelle classiche ma almeno c’è una certezza: sono sempre belle storie da raccontare.

martedì 18 settembre 2012

Il fact checking in un'immagine

Il "fact checking" è un argomento che mi sta a cuore da un po' (vedi qui, qui e, soprattutto, qui le puntate precedenti): ritengo che sia uno dei fattori imprescindibili per costruire un nuovo modo di fare giornalismo. In un epoca di bombardamento di news, abbiamo bisogno di verifiche e professionalità per avere un'informazione affidabile e migliore. Tante molte mi viene chiesto cosa significa farlo bene, detto in poche parole, e non è sempre facile. Oggi invece riesco a spiegarlo in un'immagine, tratta dal sito del Washington Post. Parliamo del più antico giornale della capitale statunitense, quello che fece venire fuori il Watergate, unanimemente considerato il più autorevole quotidiano d'America dopo il New York Times (per il resto, basta Wikipedia). Tanto per sottolineare bene di chi stiamo parlando.


Partiamo dalle news di oggi: Romney ha fatto l'ennesima gaffe. Non è una notizia così clamorosa, ne fa numerose e puntuali. Andando a cercare sul Web, ho trovato una notizia di qualche mese fa, relativa al fatto che l'attuale candidato alla Casa Bianca per il partito Repubblicano avrebbe usato in una pubblicità uno slogan reso famoso dal Ku Klux Klan. Una news di un certo peso, insomma, legata a quello che all'epoca era il favorito delle primarie del GOP. E l'ho trovata sul Blogpost, il luogo delle "breaking news" del portale del Washington Post (che ha anche il Pinocchio Test sull'ultima gaffe di Romney).

Al giornale arrivano varie puntualizzazioni, che accusano il Post di aver sbagliato a intendere la frase ("Keep America American" invece del corretto "Keep America America"), di non aver capito che la pubblicità non era prodotta dallo staff di Romney ma da un gruppo indipendente e di non aver consultato il candidato né i suoi collaboratori per avere una conferma in merito. Come so tutto questo? Ricerche su Google? No, lo scrive l'editor del quotidiano stesso, non con un trafiletto in fondo ma sottolineandolo per bene la cosa sotto il titolo. Sbugiardano loro stessi pubblicando una frase molto forte e inequivocabile: this posting contains multiple, serious factual errors.

Non si fermano a questo, fanno una solenne autocritica con un'autoironia talmente graffiante da apparire davvero sincera. L'articolo originale iniziava con la frase "qualcuno non ha fatto le ricerche che avrebbe dovuto fare", accusando Romney e il suo staff. La rettifica sottolinea come sono loro stessi a non aver fatto le ricerche necessarie, molto più colpevolmente. Tutte queste informazioni pubblicate, inimmaginabili per un quotidiano nostrano, sono verificabili qui. Cosa significa questo? Che il Washington Post ammette i propri errori, ne informa direttamente il lettore con chiarezza e trasparenza, dimostrando così la propria credibilità. Non toglie i contenuti incriminati, anzi ne aggiunge.

Una lezione di giornalismo in un'immagine. Vuol dire che tutti i giornali anglosassoni sono bravi? No, io ne ho avuto testimonianza diretta. Quel che è certo è che qui viviamo ad anni luce di distanza dal Washington Post. Purtroppo.

martedì 11 settembre 2012

Scrivere un libro, parte terza: dopo la pubblicazione


Ormai è un dato di fatto: i miei due post sulla scrittura del libro "Promuoversi mediante Internet" (qui il primo e qui il secondo) sono i più letti, di gran lunga. Per carità, numeri piccoli ma comunque molto significativi per me. Dimostra che, al di là di strategie, marketing e social media, la mia testimonianza di autore (improvvisato) è la cosa che interessa di più a chi mi legge, almeno in termini quantitativi. Ora aggiungo una terza parte, in divenire: il post pubblicazione. Ma niente consigli, solo sensazioni ed esperienze che sto vivendo in queste settimane.

Il libro sta vendendo bene, dice l'editore. Ovviamente ne sono contento. Ma la cosa che mi da più soddisfazione sono i commenti, le mail e i complimenti fatti dalle persone. Tanta gente con cui ho lavorato o che ho conosciuto negli ultimi 15 anni ha comprato il libro, l'ha letto (o lo sta per fare) e me l'ha comunicato con grande entusiasmo. Io non ho praticamente fatto promozione al libro: mandato qualche mail, qualche news messa su Facebook e Twitter, ma niente di serio o ragionato. Niente incontri in libreria, niente "product placement" in eventi di rilievo. Lavoro per un'azienda, ho una famiglia con due figli e una casa inagibile causa terremoto: semplicemente, non c'era tempo per farlo, semplicemente. Tuttavia, in una giornata normale, mi arrivano mail come questa.

 
Antonio non lo conosco. Ha comprato il mio libro, l'ha letto, ha cercato la mia mail su Internet e abbiamo iniziato a sentirci, a parlare di idee e consigli (lui si è quasi stupito che la nostra corrispondenza fosse del tutto gratuita). Altri mi hanno chiamato per tenere incontri con gli imprenditori, in azienda molti colleghi lo vogliono leggere. Tutte cose che mi hanno reso orgoglioso di quello che ho fatto. Il complimento più bello me l'hanno fatto due ex clienti: quello che si legge sei proprio tu, con il tuo modo di pensare e di lavorare trasferito sulla carta di un libro. L'obiettivo era proprio questo, mi piace pensare di averlo centrato.
 
Tanti, come prima cosa, mi chiedono quanto mi pagano. Gli rispondo sempre: non è importante (anche perché conosco molti autori di libri tecnici e sapevo come funziona, ossia che non si diventa ricchi). Quello che mi importava davvero era provare un'esperienza nuova, che ho scoperto essere molto faticosa e impegnativa, e prendermi una soddisfazione personale. Me ne stanno arrivando molte di soddisfazioni. Tutto grazie a persone come Antonio da Verona.

giovedì 6 settembre 2012

L'informazione sulle rinnovabili? In alto mare


Le rinnovabili non vanno più così di moda. Leggete giornali, guardate tv, navigate online: ormai il settore della produzione di energia pulita si sta associando sempre più al concetto di bolla, analoga a quella vissuta dal mondo ICT qualche lustro fa (un esempio qui, ce ne sono molti altri). Prima era il futuro radioso e incontestabile, ora è un comparto dominato da lobby e oscure logiche di mercato. Si sa, nella comunicazione le mode contano molto e la verità sta sempre nel mezzo ma cerchiamo di fare un po’ di chiarezza e di “fact checking”.

Il settore delle rinnovabili rischia di essere una bolla? Certo. Come tutti i settori che nascono e crescono velocemente, forse troppo, i Governi non riescono a fare piani industriali per gestirli e si rischia di perdere il controllo. La Germania, esempio virtuoso in questo senso, è stata la prima a provarci, riuscendo a diventare la “locomotiva d’Europa” nel solare (vedi qui) pur avendo condizioni meno favorevoli dei Paesi mediterranei. Allo stesso tempo, è la prima a subire i contraccolpi negativi della velocità di sviluppo di un settore condizionato dagli incentivi (che hanno portato a una sovrabbondanza di produzione e un conseguente problema di gestione dei costi) e che ha visto apparire sulla scena i competitor asiatici, aggressivi come lo sono in altri settori maturi. Anche l'Italia sta subendo l'impatto di questo fattore (vedi qui, ad esempio).

Ma le rinnovabili non sono più il futuro? Certo che lo sono ma bisogna essere realistici. La crisi economica non poteva non colpire duramente un settore che ha bisogno non solo di pannelli solari ma anche di infrastrutture nuove e molto costose per la produzione di energia: pensiamo ai parchi eolici, specialmente quelli più efficaci e redditizi, ossia gli offshore. In più, non bisogna solo produrre ma anche distribuire l'elettricità prodotta e necessitano reti e infrastrutture nuove per la gestione dell’energia pulita. In Germania servono 2.100 km di linee in corrente continua e 1.700 km di linee in corrente alternata, mentre almeno 4.000 km di linee esistenti dovranno essere rinnovate. Ossia, investimenti per decine di miliardi di Euro. Da noi se ne parla ancora pochissimo.

Il mio compito non è quello di analizzare lo scenario economico o industriale (non ne ho le competenze), ma quello della comunicazione, che è ondivago e, talvolta, poco chiaro per chi legge. L’obiettivo deve essere quello di analizzare più fonti e di farsi un’idea più chiara del tutto. Restando ai fatti, il settore delle rinnovabili paga problemi intrinsechi (si è corso, paradossalmente, troppo velocemente in quanto “dopati” dagli incentivi) ed esterni (crisi economica mondiale). Però ha superato di gran lunga tutti gli obiettivi previsti  solo 10 anni fa, in tanti casi in modo clamoroso. In più, ci sono altri settori oltre il solare fotovoltaico: eolico e mini-eolico, biomasse, cogenerazione e trigenerazione, geotermico, tutte cose che leggiamo raramente sui giornali e che devono essere conosciute e valutate.

Quel che è certo è che, volente o nolente, la sostenibilità è un processo irreversibile. Non è il bene assoluto né una bolla speculativa, è un settore di primaria importanza che va analizzato, compreso e capito. Per questo, anche noi addetti ai lavori abbiamo un compito importante: fare informazione e farla bene. Ne abbiamo bisogno e può essere fatta dal basso. Quel che conta è non cercare il titolone, del giornale o del blog, a tutti i costi. A far quello sono capaci quasi tutti.

(Photo credits: www.riqualificazioneenergetica.info)

lunedì 3 settembre 2012

Il potere delle parole giuste


Il potere delle parole è grande. Per chiunque operi nel mondo del marketing e della comunicazione, questo è un mantra imprescindibile: sulle parole si plasmano i claim delle pubblicità, le vision aziendali, le relazioni online e tante, mille altre cose. Spesso, tuttavia, i responsabili aziendali o tanti ottimi professionisti che lavorano nelle imprese tendono a non rendersi conto di questo nel dovuto modo: usano le stesse parole all'interno e all'esterno dell'impresa. A risolvere questo problema servono le linee guida, ossia brevi ma utilissimi riassunti di "cosa dire e come farlo bene" per raccontare un'impresa a chiunque non ne faccia parte, che sia un cliente, un partner, un fornitore o il postino. Un esempio recente è la scoperta del "manuale segreto di Apple", dove l'azienda della mela spiega nel dettaglio ai suoi dipendenti come devono rivolgersi verso l'esterno. A una prima occhiata, non sembra che vi siano regole magiche. Invece, è illuminante.

Io lavoro in un'azienda che fa software e scopro ogni giorno di come i programmatori tendano a parlare con chiunque come fosse uno di loro, usando spesso termini gergali e modi di dire quasi incomprensibili al resto dell'umanità. E questo si sa. Talvolta, tuttavia, questo comportamento, perfettamente logico e comprensibile, può portare a situazioni particolari. Tutti gli sviluppatori di software, ad esempio, sanno che non esiste un software senza bachi. Il "bug-free" è un illusione, la loro sfida quotidiana è ridurrli al minimo per rendere un software il più stabile e performante possibile. Logicamente, questo vale per tutti i prodotti, non esistono cose perfette. Tuttavia, talvolta si rischia di comunicare questo assunto anche davanti a un potenziale cliente, dando per scontato che lui lo condivida. Quasi sempre non è così. Guardiamo la comunicazione di grandi case automobilistiche: vediamo motori che non si rompono, gomme che non si bucano, benzine che non inquinano. Sappiamo che non è realistico ma non ce ne preoccupiamo. E le aziende non lo sottolineano, anzi.

La sincerità nella comunicazione aziendale paga, lo dico da sempre. Ma la verità va comunicata in modo intelligente. Apple dice ai suoi dipendenti: non dite mai che il software "è andato in crash" ma che "non risponde", non affermate mai che c'è un bug o un problema ma che c'è "una situazione che non va". Una persona normale dice: non c'è differenza. Invece, nelle orecchie di chi ascolta, e vuole comprare, la differenza è sostanziale e, probabilmente, decisiva. Perché certe parole fanno accendere lampadine, altre le spengono. Il potenziale cliente va rassicurato, capito, sollevato. Mentire non è mai la soluzione, trovare le parole giuste per creare empatia lo è. Per questo, è importante realizzare delle linee guida aziendali: io ci sto lavorando. Meglio che gli sguardi sorpresi siano dei programmatori prima, che dei possibili clienti poi.

(photo credits: dilbert.com)