giovedì 20 dicembre 2012

Post 2012

Maya? No, Inca.

Tra un giorno e mezzo vado in ferie e, visto che ho due bimbi, il blog va in ferie pure lui. Ubi maior. Guardavo oggi le statistiche dei miei post del 2012, per vedere cosa interessa leggere a quei pochi (ma buoni) che mi seguono in vista del 2013. Questa è la top 5 in termini di numeri:
  1. Scrivere un libro, parte prima;
  2. Scrivere un libro, parte seconda;
  3. Appunti dal VeneziaCamp;
  4. La storia di Barilla, degli americani e dell'importanza delle relazioni;
  5. The all-digital future.
Per riassumere, noto che mi legge (nessun lettore medio, sono tutti molto sopra alla media) si interessa di libri per comunicare, di futuro del giornalismo, di storie di aziende e di evoluzione del mondo dell'informazione digitale. Non si interessano così tanto di Social Media, quindi, anche se sono citati spesso qui e là. Mi fa piacere: non sono un promotore aprioristico dei socialcosi, loro, come tutto, servono in certi casi, in altri no.

I numeri contano ma non sono tutto, però. I post 2012 che invece sono piaciuti di più a me che li ho scritti sono:


Non sono numerati perché non c'è un ordine. E domani ce ne potrebbero essere altri cinque qui sopra, perché si cambia, si evolve, quello che interessa oggi può non essere quello che ci intriga domani. Tuttavia, nel 2013 terrò in considerazione quello che mi hanno detto indirettamente quelli che mi leggono, questo è certo. Lasciandomi però la libertà di parlare di cose meno di impatto, più mie. Sono "libero non professionista", no? Non mi resta che augurarvi buon Natale e un grande 2013. Crisi o non crisi, chi vale ce la fa, di questo sono certo. 

Niente sui Maya? Mi sono sempre stati più simpatici gli Inca. E pure gli Aztechi.

martedì 18 dicembre 2012

Instagnam! E retromarcia


Oggi Instagram, la famosa applicazione che permette di realizzare foto con filtri particolari, ha pubblicato un aggiornamento sulle sue policy di utilizzo e sulla privacy. Due i punti sui quali mi soffermo velocemente, altri lo fanno molto meglio, in particolare sulla nuova policy:

  • By displaying or publishing ("posting") any Content on or through the Instagram Services, you hereby grant to Instagram a non-exclusive, fully paid and royalty-free, worldwide, limited license to use, modify, delete from, add to, publicly perform, publicly display, reproduce and translate such Content, including without limitation distributing part or all of the Site in any media formats through any media channels, except Content not shared publicly ("private") will not be distributed outside the Instagram Services.

    Traduzione veloce e diretta: voi che postate le foto ci date il diritto di usarle come ci pare, gratis, ovunque nel mondo, in ogni canale o media che noi decidiamo. 
  • Some of the Instagram Services are supported by advertising revenue and may display advertisements and promotions, and you hereby agree that Instagram may place such advertising and promotions on the Instagram Services or on, about, or in conjunction with your Content. The manner, mode and extent of such advertising and promotions are subject to change without specific notice to you.

    Traduzione veloce e diretta: noi facciamo i soldi con la pubblicità per cui vi ringraziamo del diritto implicito che ci date, senza che lo sappiate, di abbinare l'advertising con i vostri contenuti. Senza dirvelo, ovviamente, decidiamo noi e grazie.

Insomma, Instagram si può "pappare" le nostre foto: non è detto che lo faccia ma lo può fare e decidono loro di Facebook quando e come. In verità, queste policy non sono affatto strane per un social network ma anche per Google, ad esempio. Sono multinazionali che si riservano il diritto di decidere di cambiare le cose in modo unilaterale e, sembra strano, lo dicono in modo diretto anche se in legalese. Non sono nato ieri e non mi straccio le vesti per questo, anche se ci sono delle belle eccezioni come Flickr. Però ritengo che è bene farci una profonda riflessione (vedi qui e qui). Partendo dalla traduzione ben più efficace della mia che si fa qui.
Dear Users: You are not our customers, you are the cattle we drive to market and auction off to the highest bidder. Enjoy your feed and keep producing the milk.And keep telling us everywhere you go and what you see there. We'll do the rest. It is our content, not your content. Your content is stored on your server that you pay for with your money. That is all. 

L'ultimo punto potrebbe essere davvero il più interessante. Un collega me lo dice da tempo. Ha ragione lui. 

Aggiornamento: per curiosità, mi sono andato a leggere i Termini di Servizio (ToS) di Twitter. I contenuti sono degli utenti, detto chiaro e tondo al punto 5, ma certe formule legalesi non sono così diverse da quelle di Instagram.

Instagram fa retromarcia (il giorno dopo)

Viste le numerose proteste di migliaia di utenti, anche prestigiosi come il National Geographic, Instagram ha fatto marcia indietro, promettendo modifiche ai termini di servizio. Bella notizia ma stiamo a vedere, le considerazioni fatte sopra rimangono da qui al prossimo futuro. 

lunedì 17 dicembre 2012

Il giornalismo deve credere nel proprio futuro

Il Guardian, testata di cui apprezzo da tempo la visione strategica nel proporre un nuovo modo di fare giornalismo e di relazionarsi con i lettori, ha deciso di chiudere la sua applicazione "sociale" per condividere i suoi contenuti su Facebook. Non perché non funzionasse, al contrario funzionava troppo bene ma spostava il baricentro del sistema di informazione verso le logiche del Social Network (più like, più visibilità) e non le sue (più "notizia", più visibilità). Avevo detto la mia mesi fa ma lo sviluppo dell'argomento, di interesse primario per chiunque si interessi del futuro dell'informazione e del giornalismo, mi porta ad approfondirlo. Ne hanno parlato molti addetti ai lavori in Italia, ne cito quattro, tra i più brillanti, con un estratto che ho scelto per riassumere il fulcro dei loro ragionamenti (leggeteli tutti i post, ne vale assolutamente la pena):
  • Luca De Biase: Un giornale deve servire alle persone anche ciò che non sanno di voler sapere. La sorpresa dell’inchiesta su un argomento nuovo è uno dei piaceri che aprono la strada alla crescita della conoscenza. E se un giornale non svolge questa funzione perde troppo valore.
  • Pier Luca Santoro: «The Guardian», da un lato, prosegue con coerenza straordinaria, senza esitazioni, il proprio percorso di apertura e trasparenza nei confronti dei lettori e, dall’altro lato, riporta all’edizione online, al sito web del quotidiano la centralità di “luogo” che favorisce il contatto e la relazione  con e tra le persone sulla base dei loro distinti interessi, dimostrandosi “SociAbile” e non predatorio come invece insistono ad essere la stragrande maggiornaza delle testate. Come scriveva Sun-Tzu nel suo celeberrrimo “Arte della Guerra” la strategia senza tattica è la strada più lenta per la vittoria, la tattica senza strategia è rumore prima della sconfitta.
  • Gigi Cogo: Il problema è la scarsa propensione a negoziare che, badate bene, è tipica di tutto ciò che viene erogato nel cloud. [...] Le cose, però, stan cambiando e molti provider di servizi cloud hanno capito che rischiano di perdere i fornitori di contenuti. La favola che i social media e i social network possono sopravvivere SOLO con gli user generated content, è finita. Ergo le parti, prima o poi, si siederanno a un tavolo, dinamica che nel cloud rappresenta un vero paradosso.
  • Marco Dal Pozzo: La mia visione è che non ci sarà nessun negoziato. Saranno gli editori a dover cedere, a meno di scelte diverse di cui PierLuca Santoro ha più volte disquisito nel suo spazio. La speranza che ho, invece, è che tali negoziati ci siano, purchè al centro di ogni trattativa venga posto il Cittadino, il lettore (mi piacerebbe, cioè, prevalesse più la logica secondo cui tra i due litiganti il terzo gode che quella del terzo incomodo).
I quattro post già bastano e avanzano per farsi un'idea dell'importanza e della complessità del tema. Aggiungo una mia personalissima riflessione. «Il cliente può licenziare tutti nell'azienda, dal presidente in giù, semplicemente spendendo i suoi soldi da un'altra parte» ha detto Sam Walton, fondatore di Wal-Mart (la più grande azienda al mondo per fatturato e dipendenti nel 2010). Questa frase, citata nel mio libro, si può adattare perfettamente al nostro caso: se il lettore/utente va da un'altra parte, può licenziare tutti sia in un Social Network che in una testata giornalistica. Il lettore sta al centro, come auspicato da Marco Dal Pozzo, anche se spesso ce ne dimentichiamo, per pigrizia e un po' per rassegnazione.

Ritengo che la scelta di mettere al centro il proprio sito Internet e non un social Network sarà, alla lunga, quella vincente. La strategia, come dice Santoro, è ciò che conta davvero, la tattica è necessaria ma non sufficiente. E l'informazione, citando Gigi Cogo, non è solo UGC ma molto di più. Per questo, il futuro del giornalismo dipende da quanto i giornalisti e gli editori credono nel proprio futuro. Perché "un giornale deve servire alle persone anche ciò che non sanno di voler sapere", come dice De Biase. Il Guardian ha fatto la sua scelta e io, nel mio piccolo, faccio un tifo sfegatato per loro e per il modello che propongono. Ne vedremo delle belle.

(Photo Credits: http://www.lsdi.it/2012/il-giornalismo-italiano-e-l-alfabeto-digitale-parte-un-sondaggio/giornalismo-3/)

venerdì 14 dicembre 2012

Il destino è nel nome


Qualche giorno fa c'è stata una bella discussione su Facebook (promossa da Gilberto Dallan, da seguire su Twitter se già non lo fate) sul naming da dare a prodotti e/o aziende, se fosse meglio utilizzare nomi di fantasia o nomi reali. Io ho detto velocemente la mia: per i prodotti, mi sono sempre piaciuti i nomi reali, focalizzati su una caratteristica specifica del prodotto e derivanti da un bel brain storming, per le aziende invece risultava più difficile scegliere un nome reale. Sull'argomento del naming, tema sempre affascinante (vedi qui e qui), ci tornerò più spesso più avanti, anche perché ci sto riflettendo anche per motivi professionali, per l'azienda dove lavoro. Perché "il nome è un soffio divino".

Proprio riguardo al naming, sono sempre rimasto piuttosto freddo sui nomi dei prodotti dati dall'azienda che per inventiva produttiva e comunicativa è, senza dubbio, la numero uno: Apple. Concordo in pieno con quanto dice Seth Godin in uno dei suoi ultimi post su questo tema. Il nome di quei prodotti non ne esprime in pieno la qualità e le potenzialità: l'iPhone è molto più di un telefono, anzi la sua componente telefonica è senza dubbio di peso minoritario rispetto al resto. Allo stesso modo, il naming dell'iPad mi ha sempre lasciato dubbioso, scontato e poco di appeal. Però le vendite danno ragione a loro e questo basta. La cosa che fa riflettere è che questi nomi arrivino da un'azienda che ha scelto un brand con un nome semplice e reale ma che racconta una, o decine, di storie, già solo pensando alla sua genesi. Trasmette un'idea di semplicità, di pulizia, di immediatezza, di riconoscibilità che, diciamocelo, ha contribuito in modo netto al successo della società. La mela luminosa che vediamo in decine di film che lo ricorda ogni sera.

Sembra strano che un'azienda così avanti dal punto di vista della comunicazione non riesca a partorire nomi più brillanti e d'effetto. Ora che la qualità dei concorrenti si avvicina, penso che dovrebbero ripensare anche al naming dei prodotti. Utimamente stanno generando un po' di confusione anche nell'ordine dei prodotti (vedi qui): il Nuovo iPad (il 3) non è più quello nuovo (che è il 4, ossia "l'iPad con display Retina), l'iPhone 5 non viene dopo il 4 ma dopo il 4S (ci sarà un 5S, un 6 o cambiano?). Andate in un Apple Store e un po' di confusione vi nasce. In più, per chi lavorò, come me, alla comunicazione dell'iPaq, palmare Compaq sul quale HP non investì, i dubbi sull'origine rimangono.


In un mercato in cui i concorrenti puntano, e tanto, sul naming per far capire che la competizione si è alzata di livello, vedi la nascita del Lumia come nuovo corso di Nokia, farebbero meglio a rifletterci su. Nomen omen, il destino è nel nome.

mercoledì 12 dicembre 2012

L'Internet delle cose disconnesse


La piccola guerra nata tra Instagram/Facebook e Twitter, con attacco da una parte e rappresaglia dall'altra, è un sintomo dell'evoluzione che stanno prendendo i social network. Anzi, un'involuzione. Perché sono sempre meno social e prendono in considerazione solo il loro, limitato, network. Dal mio piccolo punto di vista, i risultati che ottengono sono questi:
  • Danneggiano della credibilità del proprio marchio, perché per futuli guerriglie legate a obiettivi di business piuttosto limitati, danneggiano chi li ha resi colossi, cioé gli utenti stessi. 
  • Rendono più difficile fare le cose che tecnicamente sono diventate semplici, come realizzare una foto, personalizzarla e condividerla. Nessun utente può essere contento di decisioni che complicano la sua vita online, perché si attende che questi cerchino di semplificarla, non fare l'esatto contrario.
  • Rendono meno divertente essere in quei luoghi, perché si ha la sensazione di essere meno liberi in luoghi che si stanno chiudendo intorno a noi. 
  • Ammettono di non avere una strategia di lungo periodo: i vari social network hanno avuto fortuna perché erano in grado di soddisfare esigenze specifiche e interessi diversi. Neanche Facebook, il più orizzontale, è riuscito a essere onnicomprensivo: la costosa acquisizione di Instagram e le difficoltà che incontra nell'adeguarsi alla rivoluzione mobile (vedi qui e qui) sono due esempi chiari di questo.
Insomma, stiamo vedendo l'Internet delle cose disconnesse, come si dice qui. Su Twitter ho detto frettolosamente la mia su questa guerra tra ragazzini digitali.


Bene, il risultato di tutto ciò? Ho scoperto l'esistenza e le caratteristiche di IFTTT, ossia "If This Than That". Cos'è lo spiega Alessandra Farabegoli molto meglio di me. La sostanza è: ti registri gratis, imposti una serie di regole e governi in modo automatico il flusso di molte azioni che fai online. Vuoi che i link che metti su Twitter vengano salvati anche da qualche parte? If this than that. Per carità, non sarà il nuovo colosso che avanza ma è un'idea (straordinaria) che raggiunge tre obiettivi: soddisfa una mia esigenza (molto sentita ultimamente), rende semplici le cose complicate, fa capire che Internet è, ancora, un mondo aperto.

Il padre di un amico mi disse una volta: non metto cancelli né inferiate intorno a casa mia, perché ti chiudono all'interno più che proteggerti dall'esternoSarebbe un buon consiglio da dare ai signori degli antisocial network.

venerdì 7 dicembre 2012

Facile scrivere difficile, il difficile è scrivere facile

Poca leggibilità, poca chiarezza. Questi sono i difetti riscontrati da una ricerca dell'Università di Bristol e della School of Journalism della Cardiff University sul mondo dei giornali e del giornalismo. Se la qualità dell'informazione dovrebbe essere la base fondante sulla quale costruire i giornalisti del futuro, in un'era in cui la quantità di notizie e i mezzi con cui vengono veicolate aumenta esponenzialmente, non stiamo facendo un buon lavoro. Come ci dice Pier Luca Santoro, un buon giornalismo dovrebbe fornire un'informazione di qualità su temi importanti, quali politica, ambiente, business e informazione economica. Invece sono le categorie che presentano il minor livello di leggibilità, di comprensione, da parte del lettore. Il tema viene ripreso sul Foglio, spiegando che questo dovrebbe suggerire un approccio diverso all’argomento.

Il giornalismo ha un futuro se offre qualità. In termini di quantità e velocità delle news, ci sono ormai altre fonti con prestazioni inarrivabili per una testata giornalistica: a noi lettori serve controllo, verifica, metodo, interpretazione, selezione. Non ci serve uno scoop, ci serve una mano per capire il mondo. Ma la qualità non è per nulla in conflitto con la semplicità. Se pensiamo che il giornalista qualitativo sia quello che scrive con latinismi o inglesismi, metafore e figure retoriche, stiamo cercando la persona sbagliata. Ci serve l'esatto contrario. Certo, oltre ai contenuti si può fare molto anche a livello di contenitore per aumentare la leggibilità degli articoli (IL e Plus del Sole 24 Ore stanno aprendo una strada in questo senso) ma, per ora, mi voglio fermare alla sostanza, alle parole, a quello che mi compete.

Parliamo di ambiente, un tema che ci tocca tutti da vicino: l'informazione che riceviamo è complessa, confusa e, spesso, partigiana (vedi qui). Volete un esempio? Quant'è la quota di energia elettrica prodotta attraverso fonti rinnovabili in Italia? E qual è la fonte pulita più importante, oggi? Io ve lo dico qui sotto, in poche slide. Ma ci ho messo ore a trovare, e verificare, quei dati.


"Come è facile scrivere difficile, e come è difficile scrivere facile!" diceva Libero Bovio. Perché scrivere facile presuppone conoscenza dell'argomento, sottointende un'analisi profonda di quello che dobbiamo raccontare e sottolinea, soprattutto, un grande rispetto nei confronti di quello che deve essere l'unico punto di riferimento realmente importante per chi scrive: chi legge. Anche se si è esperti di temi complessi, la strada della comunicazione semplice c'è sempre. "Per un ricercatore o un esperto di un tema complesso e specialistico, è facilissimo cadere e rimanere imprigionato nei propri pregiudizi. Può sbagliare perché non si rivolge al pubblico giusto, perché non sceglie il mezzo giusto, ma soprattutto perché non fa leva sugli interessi e sulle emozioni giuste" dice Giovanni Carrada in questo post. Una lezione per molti giornalisti ma anche per molti comunicatori. Vuoi sapere quant'è la tua leggibilità? Gioca qui.

(Foto presa dal blog del mio amico Alessandro Cosimetti, ricco di spunti in termini di leggibilità dei blog).

mercoledì 5 dicembre 2012

Un social network ibrido


Novembre deve essere il mio mese di riflessione sui Social Business Network. Qualche giorno fa pensavo al fatto che manca un posto online dove aziende e comunicatori si possano incontrare, per parlare, discutere e collaborare. A pensarci bene, avevo parlato di questo, della necessità di trovare un Social Business Network, esattamente un anno fa: quel luogo doveva essere Google+, come avevo ribadito anche qualche mese fa. Ora mi viene in mente LinkedIn. Ognuno ha le sue fisse, che ci volete fare?

Su LinkedIn i professionisti ci sono già, le aziende ci stanno arrivando seriamente, serve solo trovare i modi giusti per fare conversazione. In più, è un Social Network che può permettersi, più di altri, di non essere la cosa più cool del momento, perché ha scelto la sua nicchia di attività. Non deve essere il migliore di tutti, deve essere solo il migliore di quella nicchia. Certo, mica è al sicuro, nessuno lo è nel mondo di Internet però la strada da fare per gli altri è obiettivamente dura.

LinkedIn è già un ottimo e utile social network, perché dovrebbe cambiare? Perché quella nicchia inizia a farsi stretta e ci sono belle opportunità di sviluppo. Sicuramente, i responsabili del social network avranno idee più mirabolanti e sensate delle mie. Mi limito a buttare là due o tre riflessioni, così, per gioco.
  • Perché non fare il primo Social Network ibrido? Quelli che ci sono già sono fatti per le persone, le aziende operano in un terreno, di fatto, non proprio. Si potrebbero creare eventi virtuali, tipo fiere o una sorta di barcamp, per facilitare lo scambio di informazioni reciproche in terreni neutri in cui ognuno, azienda o persona, sceglie di entrare. Gratis ma facendo una scelta chiara.
  • Perché non creare anche dialoghi tra azienda e azienda? I social network oggi non sono adatti al mondo del B2B, non aiutano una PMI a trovare il fornitore, l'agenzia, il partner giusto. Potrebbero essere enormi facilitatori di relazioni, molto più efficaci di Google o di Pagine Gialle perché potrebbero dare garanzie qualitative sul modo di lavorare che un algoritmo o un elenco del telefono non possono offrire. Insomma andare oltre il CV su Internet, il dialogare con gli addetti ai lavori e il recruitment online.
  • Perché non creare "luoghi" divisi per settore? Andare oltre ai gruppi. Trovare un posto dove c'è solo gente specializzata in quel comparto, che parla un gergo differente, non sarebbe un vantaggio secondario sia per i professionisti che per le aziende. Un luogo dove iniziare anche a fare sul serio, con messaggi diretti e privati (ma anche videochiamate o hangout) per approfondire caratteristiche tecniche, componenti e prezzi.   
  • Perché non seguire il modello Tripadvisor in ottica aziendale? Ogni impresa e ogni professionista potrebbe essere giudicato dai suoi stessi clienti per il suo modo di lavorare e di fornire i suoi servizi, con tanto di recensioni e voti utili. Il problema sarebbe sempre nel controllo delle recensioni ("cosa faccio se i concorrenti scrivono pessime cose sulla mia azienda?") ma lo stesso rischio viene corso da 1,5 milioni di attività turistiche e commerciali. Direi che il gioco vale la candela (vedi questo post di Gianluca Diegoli di due anni fa, sempre attualissimo).
Io lavoro in un'azienda che fa software per aziende, solo un esempio. Per trovare collaboratori o partner devo usare gli stessi strumenti che avevo 5 anni fa, soluzioni per niente qualitative né ricche di garanzie. Se trovassi un posto che mi dice che quel noleggiatore di hardware è bravo e affidabile e a comunicarmelo non è lui ma i suoi clienti? Lo so, al di là delle finte recensioni, il problema rimane il tasso di competizione: tra gli utenti di Tripadvisor è piuttosto leggero, tra professionisti e imprese invece è pesante. Ma l'ho detto subito, è una riflessione, un gioco, non un business plan. E magari questo posto esiste già: sai niente a riguardo?

venerdì 30 novembre 2012

Alibaba e i 3 miliardi di dollari


Se cercate "alibaba" sui risultati di Google in italiano, trovate molte informazioni sul povero taglialegna, su un caverna che si apre con "apriti, sesamo" e su quaranta ladroni. Tutto giusto, no? Invece no, c'è un altro lato della medaglia, o meglio della storia, assolutamente non trascurabile. Si tratta di un portale di e-commerce, di tipo B2C ma soprattutto B2B, che l'11 novembre ha fatto registrare un giro d'affari di 3 miliardi di dollari, il doppio del tanto pubblicizzato Black Friday americano.Ma chi sono questi, da dove vengono? Alibaba nasce in Cina nel 1999, quindi secolo scorso, sull'idea di un 35enne ex insegnante d'inglese, Jack Ma, che guida un gruppo di 18 persone. Una start-up che diventa un colosso: una perfetta storia americana se non fosse cinese. Ora questo portale ha 79 milioni di clienti in 240 Paesi (vedi qui). Ci hanno fatto pure un film, che ha una pagina Facebook. Al che, uno si chiede: come mai in Italia non ne parla quasi nessuno?

Io alibaba.com l'ho conosciuto due anni fa, quando un mio cliente B2B che più B2B di così non si può, molto distrattamente, mi ha fatto vedere questo portale. La categoria dei prodotti che vendeva, vibratori industriali (molto diversi dai prodotti che immaginate), erano acquistabili e vendibili su un portale di e-commerce online. Così, semplicemente. La struttura grafica del portale era, e rimane, molto spartana e decisamente poco attraente dal punto di vista del design. Tuttavia la user interface è buona, si accede a quello che si vuole in poco tempo e con facilità. Un sito che rispecchia esattamente i valori di un'azienda B2B: poca attenzione ai fronzoli, molto alla velocità di accesso alle informazioni e alla sostanza.

Il portale cinese dimostra anche elevate capacità a livello di marketing. Lo sconto proposto in contemporanea con il black friday americano era stato pensato oltre un anno fa e ci si aveva lavorato per mesi per promuovere la cosa a dovere. Hanno organizzato un luogo online facilmente accessibile e usabile per quei milioni di aziende B2B, specialmente le PMI, legate a vecchi schemi che ora hanno a disposizione, attraverso Internet in inglese, quello che cercano, che sia un prodotto, un partner o un fornitore. Una nicchia gigante. Ritorniamo alla domanda iniziale: perché in Italia non ne parla quasi nessuno (tranne Franco Battiato, vedi sotto)? Perché le piccole e medie imprese, come quella del mio cliente, lo usano e basta. A loro la pubblicità (di tanti guru e influencer) non serve. Badano al sodo. Apriti, sesamo.


mercoledì 28 novembre 2012

Aziende e comunicatori: ci conosciamo meglio?


Ieri ho partecipato a un evento su social media e dintorni presso la CNA di Modena. Grande protagonista della serata il professore, e amico, Stefano Epifani, una garanzia in questo senso. Al di là dei temi trattati, dei casi di successo e dei consigli, è emerso in modo netto e chiaro il divario culturale esistente tra i responsabili delle aziende e i comunicatori. Si parlano lingue differenti, non ci sono punti di contatto continuativi per aumentare la qualità della relazione e la conoscenza specifica. Se un responsabile di una PMI chiede "ma quanti tweet si dovrebbero fare al giorno?", non ci si può soffermare sull'apparente banalità della domanda perché banale non è. Se un addetto ai lavori ha difficoltà a capire quanto 3.500 euro (il valore ipotetico di un progetto per realizzare una strategia di content management, ad esempio) impattino sulle  risorse di una piccola impresa, la questione si fa difficile. Ma non è solo questione di soldi. Si tratta di cultura.

Gli eventi come quello di ieri sono molto utili da questo punto di vista perché il problema si vede a occhio nudo. Non servono statistiche, survey o interviste. Da una parte ci sono sguardi perplessi nel sentire parole come "bounce rate" o "klout". Dall'altra occhi allibiti perché non risulta universalmente chiaro che il progetto per realizzare un sito Web o per migliorare il posizionamento di un'impresa su Google (in ottica SEO/SEM) non può costare 300 Euro. Bene che queste cose si vedano chiare perché è la realtà. Non esiste una cultura comune e condivisa su quello che vuol dire fare comunicazione d'impresa perché non ci sono spazi di incontro comuni e condivisi. In parte, il mio libro è nato anche per quello: per spiegare che prima di tutto ci si deve ascoltare a vicenda, ci si deve fidare.

I Social Network potrebbero avere un ruolo importante nel creare questi collegamenti ma, ad oggi, non lo fanno. E non è solo un problema di relazioni sociali, il "cultural divide" (vedi qui e qui) esiste da molto più tempo. Ci sono aziende che aprono i profili Facebook senza avere un company profile o un sito decente, senza avere persone specializzate per "essere" in Rete, senza avere chiaro il perché si sta su Facebook (altro punto emerso chiarissimo ieri sera). Per questo, ieri, ho fatto una domanda a Stefano Epifani: c'è lo spazio per creare degli spazi, una sorta di marketplace ripensati e riprogettati alla luce delle potenzialità di oggi nei quali le aziende e i comunicatori possano iniziare a conoscersi meglio, per creare una cultura tecnica e comunicativa condivisa? Perché non si può andare oltre al tavolo di una riunione o alle due ore di un convegno?

Secondo Stefano Epifani, c'è troppa competizione antropologica, specialmente in Italia, e non funzionerebbe. Ci si farebbe solo una guerra tra poveri più spietata di prima: comunicatori vs comunicatori, aziende vs aziende. Se questo lo dice uno che nel 2003 scrisse un libro intitolato "Business community", c'è poco da stare allegri. Io invece sono più ottimista. Perché ora "fare rete" diventa una strada obbligata per sopravvivere alla crisi economica. Forse quei marketplace che non andavano bene prima possono funzionare oggi. Erano la soluzione giusta al momento sbagliato. "United we stand, divided we fall" lo diceva già Esopo, ben prima di John Dickinson. Davanti a una minaccia comune, si devono mettere via gli antichi rancori e le piccole rivalità. L'obiettivo è conoscersi meglio, dopotutto. Nessuna controindicazione, se non nella nostra insicurezza.

P.S.
Appena finito di scrivere il post, leggo questo. Nonostante tutto, resto ottimista. Un pochino meno, però.

giovedì 22 novembre 2012

Le primarie, un gioco e un post in costante aggiornamento

Oggi provo a fare un piccolo esperimento, un post in evoluzione, uno storify in diretta. Tanto non mi costa nulla. Un gioco, come un gioco è l'oggetto stesso del post. Facciamo una premessa: mi sono divertito molto a usare le sezioni messe a disposizione dai siti americani per predire i risultati delle elezioni USA (come questo di politico.com). Risultato: ho indovinato 49 stati su 50, ho sbagliato solo la Florida, mi sono paragonato a Nate Silver e, in definitiva, mi sono molto divertito. Quindi oggi mi sono chiesto: visto che in Italia ci sono le primarie, del PD a breve e del PDL tra qualche tempo, anche i quotidiani nostrani hanno fatto giochi simili? Non ne ho trovati. Ho chiesto un parere anche a un esperto di gamification ed editoria come il mio amico Pier Luca Santoro e qui sotto c'è la risposta.

Alla luce di questo, ho pensato: perché non buttare questa piccola idea su Twitter e chiedere lumi direttamente ai principali quotidiani italiani?


Ora sono le 12.53, vediamo se e come rispondono. Qui sotto metterò gli eventuali aggiornamenti: un post storificato, vediamo l'effetto che fa. Chiaro, se vedete giochi del genere su qualche quotidiano (non siti ad hoc, voglio vedere se qualche media risponde all'appello) fatemelo sapere. Magari l'idea è mia e chiedo una percentuale.

Aggiornamento delle 14.30

I quotidiani storici non hanno ancora risposto al mio tweet, rilancio e provo con tre fonti di informazione presenti esclusivamente online. Stiamo a vedere.

Aggiornamento delle 10 del 23/11
Nessuna risposta su Twitter alla mia piccola proposta. Non c'è problema, stiamo a vedere se qualcuno raccoglie lo spunto. Solo perché porterebbe gli utenti a riflettere in modo leggero e divertente sulla politica. Ne abbiamo tanto bisogno.

Aggiornamento del 27/11
Primo turno fatto, Bersani e Renzi al ballottaggio e ora si apre un bel testa a testa, più semplice da gestire anche in ottica gioco. Si potrebbe prendere questo esempio, usando le regioni italiane, e vedere chi vince. Non ci sono i grandi elettori ma potrebbe essere utile valutare i dati del primo turno, regione per regione, e far fare agli utenti una previsione: il Corriere fa vedere che le capacità ci sarebbero. Per ora nei media italiani non si va oltre a qualche banale sondaggio (La Stampa), si potrebbe fare molto di più. Stiamo a vedere.

martedì 20 novembre 2012

Il lato oscuro del native advertising

Basta la bottiglia.
Il Giornalaio ha pubblicato ieri un ottimo post che parla dell'evoluzione del rapporto tra comunicazione aziendale e pubblicità alla luce della crisi epocale dell'advertising. Citando il caso del nuovo portale di Coca Cola, che si presenta di fatto come una testata, un hub informativo, più che come un sito aziendale, si approfondiscono le caratteristiche di una delle possibili strade che la comunicazione può prendere in futuro: l'impresa si trasforma da marchio a media. L'argomento è molto interessante, non lo si può esaurire in un solo post, però inizio a rifletterci su.

Di fatto, la comunicazione aziendale e la pubblicità sono sempre state due parti distinte, anche se spesso, nella testa di un'imprenditore, era una differenza non così chiara nel grande calderone del marketing. Da una vita mi batto su quel confine di distinzione: non sono un pubblicitario. Per far capire bene cosa facevo, prendevo l'esempio di un giornale, dove si potevano distinguere bene gli articoli derivati da comunicati stampa (la parte redazionale) e le pagine pubblicitarie. Su quanto le seconde abbiano sempre influito sui primi potremmo discuterne un mese ("ho visto cose..." potrei dire) ma restiamo sulla percezione del lettore, la distinzione c'era. Da una parte c'era un giornalista, dall'altra un'azienda. 

Per carità, c'è sempre stata tutta una fascia grigia, non sono né un romantico né un ingenuo. Le vedo anch'io le pagine pubblicitarie "mimetizzate" da articoli (l'edizione italiana di Wired ne ha molte e fatte molto bene), gli articoli che sembrano advertising (le cosiddette marchette) e il grande e variegato mondo dei pubbliredazionali. Però il modello almeno era chiaro. Ora le grandi aziende sembrano voler passare il Rubicone in forze e si propongono come nuovi "raccontatori di storie". Se a una valutazione preliminare può apparire una gran bella notizia, soprattutto per me che lo storytelling lo faccio per lavoro, i lati più oscuri rimangono quelli più interessanti.

Coca Cola ha come suo primo obiettivo quello di vendere, non di fare informazione. Inutile girarci intorno. Il team di Coca Cola Journey può avere una sua redazione ma rimane un'azienda privata con obiettivi privati. Bene ribadirlo, interessi del tutto legittimi. Discorso speculare vale per le testate: le storie sponsorizzate e i contenuti brandizzati, ossia il cosidetto "native advertising", vengono pubblicati perché qualcuno paga, non per una scelta legata alla qualità intrinseca di quello che viene raccontato. Se la zona grigia aumenta, diventa più difficile capire chi dice cosa e perché. Al New York Times hanno un'opinione su questo:
"It is critically important to us that advertising can be clearly distinguished from editorial and news content by our readers. For that reason, we tend not to accept native advertising”.
Sono pienamente d'accordo. La questione importante non è che il logo diventi molto piccolo o passi in secondo piano: le parole, le immagini e lo stile stesso possono essere simili a "marchi registrati" di un'azienda. La bottiglietta là sopra è un chiaro esempio (vedi qui). La questione vera è chi comunica, il soggetto. Su questo ci deve essere chiarezza. Ho sempre sostenuto che il giornalista avrà un ruolo in futuro ma che ancora non si sa quale sia, una casella vuota. Quello che so è che non potrà essere colmato da un'azienda. Anzi, lo spero.

venerdì 16 novembre 2012

Collaborazione vs antagonismo


Tra ieri sera e oggi mi è accaduta una cosa, che riflettendo a posteriori potrebbe essere utile per iniziare a creare un piccolo modello di collaborazione tra giornalisti e cittadini, non di sterile antagonismo che oggi non ha più senso di esistere. Il tutto in una logica di fact checking ma non solo. Spiego l'accaduto, poi la riflessione.
  • Il Corriere della sera pubblica ieri un articolo a firma di Guido Olimpio sui nuovi missili Fajr 5 che minacciano Israele. 
  • Nell'articolo originale c'è un evidente refuso: la testata del missile, si scrive, ha un peso di "907.100 chilogrammi". Non può essere, quello è il peso di un treno completo di locomotive e vagoni.
  • Io via Twitter (vedi sotto) e un lettore attraverso i commenti segnalano l'evidente errore. 
  • L'articolo viene corretto, bene così per tutti, sia per chi l'ha scritto che per chi dovrà leggerlo.

Nella sostanza, una cosa senza rilevanza particolare. Tuttavia, riflettendoci su, ho ripensato a quello che ho fatto:

  • ho segnalato l'errore su Twitter in modo da segnalare ai miei follower, e non al giornalista, che il Corriere della sera aveva preso una bella cantonata.  
  • Ci ho pensato su. Era un chiarissimo refuso (senza fantomatici secondi fini), perché non segnalarlo al redattore in modo tale da far correggere l'articolo? 
  • Il giornalista mi ha risposto. La collaborazione reciproca per un mutuo interesse, il suo di autorevolezza, il mio di corretta informazione, ha portato al risultato. Insomma "un fact checking volante".

Cosa c'è che non torna, alla fine? Che chi legge l'articolo non ha percezione di questa collaborazione, lo legge o con l'errore (prima) o senza (poi). Perché non darne visibilità? Perché le testate non devono chiedere una mano ai lettori per fare un'informazione migliore?

Un box di "fact checking" in cui si ringraziano i cittadini che hanno speso un po' del loro (prezioso) tempo per aiutare un giornalista e una testata, non per danneggiarla. Magari, segnalando nickname scelto per i commenti, per Twitter o per altre cose. Un modo intelligente per "pagare in visibilità" e incentivare la collaborazione, non l'antagonismo. I giornalisti, come tutti noi, sbagliano anche in buona fede e iniziano a voler collaborare con i propri lettori. "Una volta che è pubblicata, una storia diventa di tutti" dice Nick Petrie del The Times (citato anche qui). Per questo, meglio iniziare a collaborare. "Possiamo pretendere che comincino politici e giornalisti, ma secondo me facciamo prima se cominciamo a dare, ciascuno nel suo piccolo, il buon esempio" dice Sergio Maistrello. Appunto.

mercoledì 14 novembre 2012

Meglio aver ragione che essere autoironici

Le immagini valgono più di mille parole, questo è un mantra di questo blog (un esempio qui e qui). Bene, ora guardate le due immagini qui sotto, sono entrambi di un sito di partito democratico.

 
La prima, un'immagine gioiosa ma elegante, sobria e curata, che esprime soddisfazione per un risultato importante e che ringrazia soprattutto chi sta dall'altra parte dello schermo ("grazie a voi"). Ogni protagonista guarda direzioni diverse, verso i loro elettori, con una qualità singola forte e d'impatto. Si vede ovviamente che non è una foto spontanea (su questo, ho già detto la mia) ma è stata scelta perché valida in ogni dettaglio.
 

La seconda, un'immagine che vuole giocare con l'autoironia, strizzando l'occhio alle generazioni più giovani, ma che è sostanzialmente autocelebrativa ("abbiamo vinto noi"). Non è curata dal punto di vista grafico (cosa voluta in modo evidente ma che, a mio parere, non è per nulla una scelta azzeccata) e tutti i presenti guardando verso il centro, portando l'attenzione sulla figura centrale, l'attuale segretario del partito. In più, c'è una bella marchetta nei confronti della tv che ha gestito il dibattito (per chiarire il quadro vedi qui e, soprattutto, qui).

So perfettamente che i contesti sono molto diversi ma la filosofia di fondo rispecchia nettamente una diversità di approccio davvero netta. La questione non è essere ammiratori di Obama o esterofili, è essere obiettivi nel giudicare la professionalità e le idee di chi comunica. C'è modo e modo di strizzare l'occhio ai giovani. Lo sottolinea perfettamente, e senza necessità di precisazioni, il tweet di Michele Boroni qui sotto riferito ai "Fantastici 5". Parafrasando una celebre frase, meglio aver ragione piuttosto che essere autoironici.

martedì 13 novembre 2012

Il futuro del giornalismo? Tornare al passato

Il possibile sviluppo futuro della figura del giornalista è un tema che mi interessa molto (vedi qui e qui). Una delle possibili opportunità di sopravvivenza del giornalismo è quello di far "esplodere" i fatti, interpretarli, semplificare le chiavi di lettura, al fine di essere davvero utile nei confronti dei lettori. Non potendo vincere la gara della velocità e della quantità di notizie con gli utenti dei social network (anche in ottica citizen journalism), devono ritagliarsi un ruolo importante nella qualità delle notizie, nell'approfondimento. Se la figura del giornalista ha un futuro, questa deve ripassare i requisiti di base che aveva nel passato: credibilità, competenza, fact checking, esperienza. Ossia tutte doti che l'uomo della strada, armato di smartphone e tablet, difficilmente può avere. Non deve raccogliere istantanee di presente, cercando lo scoop a tutti i costi. Al contrario, deve raccontare storie e lo deve fare con stile, semplicità e precisione.

Prendiamo un caso recente, quello di David Petraeus. Mi ha interessato da subito e, da subito, ho avuto la sensazione che ci fosse molto più da scoprire su questa storia (qui sotto il tweet che avevo scritto qualche amante fa, questo l'aggiornamento di oggi con il coinvolgimento del Generale Allen).


Allora mi sono messo a leggere qualche articolo, come questo: ditemi se ci capite qualcosa. Forse solo un esperto si soap opera ci trae qualche conclusione. Un sacco di informazioni, molte inutili ai fini della comprensione dei fatti (quanti figli ha ognuno dei protagonisti, ad esempio), nessun filo conduttore. Va bene, la storia è complessa, si intrecciano amanti e file segreti, scenari bellici e e-mail appassionate. Ma è proprio il giornalista che ha il compito di trovarci un ordine, per quanto ancora temporaneo in attesa di nuove conferme. Il suo ruolo è quello, mica farmi vedere quanto brutta è la moglie del generale. Allora cerco in rete e trovo questo, in italiano: l'amante guerriera contro la moglie da tinello, il generale Ego e l'uomo che ha ingannato l'America. Ho ancora le idee molto confuse.

Cerco su Google e trovo questo bel post di Stefano Cingolani, classe 1949, giornalista. Non spiega tutto ma molto sì, cita le fonti (il New York Times, mica l'ultimo arrivato in termini di credibilità), ci dice che casi del genere non sono rari nella diplomazia americana (vedi anche qui), ci offre la chiave di lettura della contrapposizione storica tra FBI e CIA, non entra in particolari da soap opera ma spiega come il centro della storia sia più legato alla vicenda di Bengazi che a quella delle sue amanti (vedi anche qui). Mi offre una lente per vedere meglio. Per carità, non è un caso unico, anche sul Corriere sono usciti pezzi interessanti, casualmente prima che scoppiasse la bomba delle amanti.

Ad oggi, nessuno sa la verità, però io, lettore, ho capito la situazione molto più da un singolo post che da 4 siti di quotidiani. Blog di un esperto giornalista classe 1949. Guardare al futuro tornando alle regole del passato, si diceva. Una bella conferma. 

mercoledì 7 novembre 2012

Una lezione di comunicazione, in un tweet

Barack Obama vince le elezioni e il secondo mandato come Presidente degli Stati Uniti (e io ho indovinato quasi tutto). Come lo annuncia? Su Twitter. Una foto, tre parole: four more yearsIl discorso verrà dopo, sintetizzato nel motto "the best is yet to come". Ma riguardate il tweet, c'è tutto: la felicità, l'emozione, la soddisfazione personale e professionale, la perfetta conoscenza del mezzo, uno staff fenomenale (fattore determinante per la vittoria).

Una lezione forte e semplice, al tempo stesso. Si può dire tanto con un'immagine e tre parole. Lui ha detto tutto. Chapeau.


Aggiornamento: molti post e articoli hanno sottolineato come la foto postata da Obama non fosse relativa alla notte dell'elezione ma di molto precedente (vedi qui). Addirittura, c'è chi la definisce "un falso storico". Il mio punto di vista: Obama ha vinto anche grazie a uno staff di qualità parecchio superiore rispetto a quella del suo sfidante. Alcune di quelle persone ci hanno messo anni a scegliere il font giusto da utilizzare per la campagna (il Gotham, vedi qui). Allo stesso modo, la foto della vittoria era stata già selezionata tra le migliaia di elevata qualità a disposizione, pronta all'invio. Come era già pronto il discorso della vittoria e della sconfitta. Come erano già pronte mille altre cose (compreso il sito per la vittoria di Romney andato online per sbaglio).

Chi pretendeva una foto in tempo reale "alla instagram" è un inguaribile romantico: in campagna elettorale, nulla è lasciato al caso o all'improvvisazione. La questione della verità e della sincerità lasciamole stare, per favore. Quella foto diceva esattamente quello che il Presidente rieletto voleva comunicare. Basta e avanza, il resto è fuffa. "Una lezione di Social Media" dice Vicenzo Cosenza nel post sul falso storico. Condivido in pieno questo, non il titolo.

lunedì 5 novembre 2012

Un buon giornale è una nazione che parla a se stessa


Volete un semplice esempio per sapere come funziona (male) l’informazione in Italia? Le elezioni americane. L'argomento mi appassiona dal 1988, da Bush padre che massacra Dukakis dopo 8 anni di Reagan. Non dall’era Obama. Se vogliamo approfondire la cosa sui media, oggi, vediamo un sacco di fumo e pochissimo arrosto. Partiamo da una domanda chiara e semplice: nelle elezioni americane vince chi prende più voti popolari? No. Diventa Presidente chi ottiene più voti dei “grandi elettori”, i quali vengono eletti, in numero predefinito, in ogni Stato. La differenza non è lieve. Al Gore nel 2000 ottenne più voti popolari di George W. Bush ma, perdendo la Florida di 537 voti (e vedi qui se e come la perse), perse la Casa Bianca. Insomma, un Risiko: si vincono gli Stati e, facendo la somma dei Grandi Elettori, si ottiene il Presidente degli Stati Uniti. Trovate tutto, ovviamente, su Wikipedia.
Quale informazione invece danno i nostri media? Sondaggi sulle tendenze di voto delle donne single. O di latinos, afroamericani, gente del midwest e chi più ne ha più ne metta. Tanta fuffa, pochissima sostanza. Oppure tutte le luci accese sui dibattiti dei candidati, che sembra che spostino centinaia di migliaia divoti. Kennedy nel 1960 distrusse Nixon in tutti i dibattiti e vinse, certo, ma di 112mila voti, appena lo 0,2%, un record ancora non superato. In termini di Grandi elettori invece? 303 a 210. Che sembra un massacro, no? Se andate sul sito www.politico.com, nella sezione degli Swing States (gli stati in bilico), potete fare le vostre previsioni, capendo esattamente come funziona la partita. Ogni stato ha un peso: la California ha 55 Grandi Elettori, l’Alaska 3. Un sistema spiegato in modo chiaro, semplice, efficace. Da noi? Un esempio.
Il sistema americano è giusto? Non lo so, quel che è certo è che funziona (quasi) sempre. Perché non ci viene spiegato bene? Si parla tanto di Ohio e Florida come Stati decisivi senza evidenziare, in modo comprensibile a molti e senza ammiccamenti da addetti ai lavori, perché dovrebbero essere decisivi. Qui sta il succo della crisi dell’informazione: tanta quantità e analisi, poca qualità e chiarezza. Belle eccezioni in questo scenario mediocre ne esistono, un esempio qui e un altro qui (partendo da West Wing, serie favolosa): tanti fatti, poche parole, una specie di infografica utile (mica sono tante). Poi ci sono progetti e idee interessanti (come questo, segnalatomi da Michele D’Alena) ma qui si entra più sul gioco che sull’informazione.

Come disse Arthur Miller, “un buon giornale è una nazione che parla a se stessa”. A noi, oltre a un modello sostenibile per l’editoria del futuro (sempre che possa esistere), ci mancano i buoni giornali. E una nazione di persone che, finalmente, impari a scegliere cosa ascoltare.

Chi vincerà? Io la mia previsione su www.politico.com l'ho fatta, è qui sotto. Stiamo a vedere.



mercoledì 31 ottobre 2012

Il peso delle idee in un mondo di numeri


Oggi ci serebbero tantissimi spunti per approfondire la crisi del giornalismo italiano, uno su tutti il caso job24. Ricordo più di un prestigioso redattore economico che nel 2004 si rifiutava di considerare l'e-mail come canale di comunicazione diretto, preferendo il fax. Esperienza diretta, non sentito dire. E ora hanno la loro bella faccina sorridente su Twitter. Ma rinuncio alla tentazione (è dura e si capisce) e parlo di altro.

Viviamo in un'epoca dove "il numero" sta prendendo un'importanza predominante, quasi esclusiva nel pianificare e gestire le attività di comunicazione. Certo, ci sono solide e nobili ragioni (vedi qui) ma riportare ogni cosa alla quantità di follower, ai dati di Google Analytics, agli obiettivi misurabili e al calcolo del ROI può essere limitante. Le aziende non sono solo dati e business, sono soprattutto persone che lavorano insieme per crescere insieme. Anticipo la domanda: no, non sto facendo filosofia. La qualità di un contatto con un potenziale cliente, l'empatia che si crea durante una riunione per motivazioni diverse e imprevedibili, la firma su un piccolo progetto considerata improbabile fino alla settimana prima sono tutte cose non quantificabili. Ma è anche grazie alla somma di questi fattori che le aziende crescono in Italia.

Pensiamo al ROI. Se un potenziale imprenditore dovesse calcolare il ROI legato alla creazione di una nuova impresa in Italia, obiettivamente dovrebbe lasciar perdere. E invece ci sono pazzi che nonostante un carico fiscale incredibile, una burocrazia illogica e l'impossibilità di assumere qualcuno nel breve periodo, ci provano. Cosa li spinge? Passione, convinzione, competenza, fiducia, visione, tutte cose non "pesabili", non oggettive. E spesso riescono nel miracolo. Come il calabrone, che ha le ali troppo piccole per volare ma, non sapendolo, vola lo stesso (vedi qui un bell'articolo su questo paradosso aeronautico).

Io ho lavorato spesso, e lo faccio tuttora, con imprenditori che hanno iniziato da una passione che, col tempo, si è trasformata in lavoro. Quasi tutti non avevano percepito l'importanza di comunicarla adeguatamente, loro stessi non la consideravano un fattore rilevante. Per questo, al di là di progetti infarciti di numeri da raggiungere e di dati da ottenere, noi addetti ai lavori dobbiamo ricordarci cosa fa andare avanti un'azienda nei nostri progetti di comunicazione: un insieme di idee, entusiasmo e fiducia in noi stessi. Quanto pesa, nessuno ve lo può dire.

(Photo credits: http://www.johnelkington.com/activities/ideas.asp)

giovedì 25 ottobre 2012

A lezione di idee per scrivere


Avete presente quando cercate nuovi spunti per approfondire il tema "come posso scrivere contenuti migliori per il Web e non solo"? Lasciate in pace Google per un giorno, chiedetegli solo dove Luisa Carrada farà il suo prossimo intervento, nelle prossime settimane.

Io l'ho vista in azione ieri a Ravenna Future Lessons 2012 (complimenti a Lidia Marongiu e all'organizzazione), per la prima volta dal vivo. Parlava insieme ad altri ottimi professionisti, una su tutti Alessandra Farabegoli (di cui ho già scritto molte volte). Ho avuto spunti per scrivere una decina di post, e per sviluppare una ventina di idee per la mia azienda, in soli 45 minuti di keynote. Mi capita raramente, giuro. Andate a vedervi il blog, io l'ho citato spesso nel mio libro, è una miniera d'oro di consigli. Ma vederla dal vivo, giuro, offre un ulteriore valore aggiunto. E non trascurabile.

Riscoprendo Aldo Manuzio
Alcuni spunti li voglio condividere qui e ora, altri ne troverete sparsi in altri post, nelle prossime settimane:
  • "Non siamo nati per leggere". Si tratta dell'incipit del libro "Proust e il calamaro", citato nell'intervento. Scrivere e leggere sono un'invenzione, non sono doti umane innate. Invece siamo nati per guardare le cose, con curiosità, cercando di andare oltre. Questi concetti possono essere utilissimi per capire che alle persone dobbiamo insegnare come leggere i nostri testi aziendali, dobbiamo accompagnarle in un percorso che includa testi, immagini e video fatti per incuriosire. Una strada che renda il cammino chiaro e semplice da fare.
  • "Il rapporto tra immagini e testo non è una cosa nata con i grafici e con Internet, l'ha inventata Aldo Manuzio, il primo vero editore della storia, il papà di tutti i grafici". Questa persona da il nome alle scuole medie che ho frequentato da piccolo ma posso dire di averlo scoperto davvero solo ieri. Si è inventato un modo di mettere insieme immagini e testi, dove le parole si frammentavano in piccoli gruppi per creare equilibrio con i disegni. Il papà dei blocchetti modulari che ho fatto per realizzare le brochure di prodotto della mia azienda. E non lo sapevo.
  • "La parola non è più sola, dobbiamo avere attenzione verso tutto quello che sta intorno alla parola e verso quali ambienti le nostre parole andranno ad abitare". Si tratta di un modo semplice e diretto di spiegare tutta la filosofia che sta dietro alla creazione di contenuti per la comunicazione aziendale. Si scrive per chi legge, non per noi e meno che mai per autoincensarci. 
  • "Etimologia della parola testo: significa tessuto. Fili combinati da tessere insieme. Abbiamo testi lunghi e testi brevi da tessere insieme, che sappiamo soddisfare sia la lettura esplorativa che la lettura profonda". Non c'è conflitto tra testi brevi, incisivi e d'effetto, e testi lunghi, approfonditi e precisi. Uno serve all'altro. I primi possono, e devono, portare ai secondi, lasciando la libertà di decidere a chi legge. E non c'è alcun conflitto neanche tra parole e immagini.
  • "Insieme ai testi si possono tessere anche colori e forme, ma senza esagerare". Ecco, neanche Luisa ama le infografiche. Un'ottima conferma delle mie opinioni a riguardo.
  • "Le parole devono essere precise, per far contenti sia i lettori che i motori. Dobbiamo declamarle a voce alta per capire le parole chiave, le parole giuste, le parole vere. Quelle vicine alla vita, come diceva Italo Calvino". Un'altra conferma dell'approccio che ho sempre utilizzato: partire sempre da me e dalla mia azienda per descriverla, non da quello che va di moda o da inglesismi che spesso sono falsi amici.
Ripeto, sono solo alcuni spunti di riflessione. Non cito la storia di Enrico Fermi in 50 tweet (#fermitutti). Non cito "Just my type" di Simon Garfield. Ci sarà tempo. Intanto se vi interessa la gestione dei contenuti e molto altro, cercate di essere al prossimo speech di Luisa. Non ve ne pentirete. E magari mi offrirete un caffé per il consiglio.

giovedì 18 ottobre 2012

The all-digital future


In un vecchio post (2 anni son tanti per un post), scrivevo che in quei tempi probabilmente si stava progettando quello che doveva essere "il Facebook dell'editoria". Il modello l'avevo riassunto in tre parole: semplice da leggere, gratuito (almeno per la grande maggioranza dei contenuti) e personalizzato (ognuno deve decidere i contenuti che gli interessano). Invece, ad oggi, non ce l'abbiamo ancora e non si vede neanche all'orizzonte.

Tuttavia, quel post mi è venuto in mente dopo aver letto oggi che il glorioso Newsweek andrà "all-digital" dal 1° gennaio 2013. Seguirà un modello di business di cui si sa ancora poco ma che è più o meno questo: contenuti tutti a pagamento, anche per mobile e tablet, affiancati ad articoli gratuiti disponibili su Daily Beast (megablog di cui da noi si parla pochissimo rispetto all'Huffington Post e non solo perché quest'ultimo ha la versione italiana). Tenendo conto che online l'unico modello di "poco gratis e molto a pagamento" che sembra funzionare è quello del "paywall" del New York Times, e non so quanto sia replicabile, questa è davvero una notizia.

Se il progetto Newsweek porterà risultati lo vedremo tra non molto. Quello che traspare ora è un'idea molto coraggiosa: le rotative ci costano troppo, andiamo solo online subito con un modello di business molto, molto semplice. Una scommessa in tutto e per tutto, vediamo l'effetto che fa. Visto che la quasi totalità degli editori contano ancora sui ricavi della carta (sul Giornalaio trovi tutto, ma anche su Wired) e anche quelli che hanno sposato la filosofia "digital first" non la abbandoneranno (El Pais, uno su tutti), questo salto assume un fascino analogo a quello di Felix Baumgartner. Certo, non sono folli come sottolinea bene Ezekiel su Twitter, ma dei coraggiosi sicuramente. Visto che nel futuro dell'editoria ci stiamo vivendo, in bocca al lupo a Tina Brown e ai suoi. E se il modello che funziona non sarà gratuito per gli utenti, pazienza. Felice di essermi sbagliato.


Aggiornamento del 26 Ottobre 2012
Sulla questione Newsweek, si sono state molte riflessioni interessanti citate da Giuseppe Granieri. Quasi tutte sottolineano che è un salto nel vuoto e basta. Che il paywall non servirà, che spegnere le rotative riduce i costi ma non offre alcun modello alternativo, che è solo un modo di tenere in vita artificialmente un vecchio e glorioso giornale con un modello di business che, semplicemente, "non funzionerà". Io resto a guardare, comunque. Ah, un'ultima cosa: vedendo i numeri, anche per il paywall del New York Times non sembrano tutte rose e fiori.
 

martedì 16 ottobre 2012

Only good companies have good followers


Un giorno come tanti altri, vai a vederti il sito di un grosso brand, per cercare informazioni, per avere idee, per tanti motivi. Ti accorgi che c'è qualcosa che non va, niente di grave ma lo noti subito in un portale fatto con tutti i crismi. Il logo dell'azienda, mentre ci navigi dentro, viene tagliato. In realtà, anche alcune altre parti del sito sono strane, i caratteri diventano troppo grandi e poco "usabili". Nasce la tentazione "#epicfail": vai su Twitter, segnali la cosa ai tuoi follower e fai vedere che anche i grandi sbagliano. A me invece quell'azienda, quel brand sta simpatico, mi piace il loro modo di fare. Non ho loro prodotti, non ci ho mai lavorato insieme, non ho alcun "conflitto di interessi". Allora uso Twitter e segnalo loro il problema, semplicemente, direttamente, mettendo @nomeutente all'inizio, così la conversazione è tra me e loro. Sperando di fare cosa utile. Magari è solo un problema mio, penso.


Invece succede che poco dopo il grande brand mi risponde. Su Twitter. E mi ringrazia per aver segnalato il problema, prontamente girato al loro reparto IT e già risolto. #IEproblems, sottolineano. Eh, sì, lo so, ogni sito aziendale ha i suoi #IEproblems.


Rimango sempre sorpreso dell'estrema facilità e immediatezza con cui si può dialogare con un grosso brand: io ho segnalato loro un problema e loro mi hanno ringraziato. Penso a cosa sarebbe successo anni fa, con gli strumenti di anni fa: mando una mail, ok, a chi la mando, alla info, mah, chissà se la leggono, figurati se mi rispondono, ok lo faccio, ma devo accendere il PC, uffa... e dopo 5 minuti ti passava la voglia. Ora è bastato uno smartphone e un tweet. Ed è nata una conversazione. Poteva anche non nascere ma è mutato l'approccio.

Non è cambiato il mondo, per carità. Io probabilmente continuerò a non comprare i loro prodotti ma la prossima volta che vedrò quel marchio stampato mi ricorderò di questa conversazione, una piccola storia che finisce, ovviamente, con un Tweet: only good companies have good followers.


mercoledì 10 ottobre 2012

I limiti del fact checking

Quanto pesa una bugia nella comunicazione politica?
Il fact checking è un argomento affascinante, perché presuppone un orientamento qualitativo, e non solo quantitativo, verso la creazione di informazione (vedi qui). Allo stesso tempo, è un atto molto complesso da gestire perché ci vuole metodologia, professionalità ed equilibrio. Uno dei problemi principali è, ovviamente, l’obiettività del controllore: focalizzare la verifica su dati o fatti che si ritiene più importanti, anche in buona fede, mina il vero controllo, perché non si da al lettore una visione equilibrata del tutto. In gergo si chiama “cherry picking”: si analizzano solo i dati che confermano la propria tesi (dati oggettivi, per carità), ignorandone altri che potrebbero confutarla (pratica citata anche qui). Questo è solo uno degli aspetti più complessi, ce ne sono altri.

Ho letto un’interessante analisi del corrispondente di Time alla Casa Bianca sulla campagna presidenziale americana e sul cosiddetto "False Equivalence Dilemma". Detto in parole povere: scopro che Obama e Romney hanno detto, supponiamo, 10 bugie a testa, su vari temi. Chi è più ingannevole dei due? Come si fa a valutare il “peso” di quelle bugie nei confronti dei potenziali elettori? Il giornalista ne discute con esperti in materia e, alla fine, tutti concordano sul fatto che non esista una metodologia applicabile per risolvere questa controversia. Riflettendoci su, posso dire che non serve. Il “controllore dei fatti” ha già dato ai suoi lettori dei dati oggettivi da valutare e non può andare oltre, perché qui entra in campo la soggettività della persona. Per me una bugia può essere più grave di un’altra, perché dipende dai miei valori, dal mio modo di pensare, da quello che ritengo più importante. Non può esserci un dato oggettivo su questo. Anche i numeri hanno dei limiti.

Se una fonte di informazione mi dice che Obama ha detto 10 bugie e Romney pure, ha già fatto il suo lavoro. Anzi, se il livello è quello italiano, ha fatto molto di più. Un giornalista può anche dirmi chi è più bravo dei due ma su questo, alla fine, decido io, elettore. Probabilmente riflettendo su questi temi si arriveranno a sviluppare metodologie che riescano a evidenziare l’impatto di una bugia nei confronti della propria audience. Ma ci sono molti altri fattori. Lo stesso linguaggio del corpo è fondamentale per trasmetterci emozioni, prospettive, sicurezze che non possono essere pesate (prova a vedere qui). "La politica è un'arte, non una scienza esatta” disse Bismark nel 1884. Provate a confutare questa frase. Non ce la farete.